Non ci sono prove che i quattro imputati nel processo per la morte di Giulio Regeni sappiano di essere imputati per la morte di Giulio Regeni, il ricercatore dell’università di Cambridge torturato e ucciso a Il Cairo il 25 gennaio 2016. Sembra un paradosso ma, ancora oggi, a distanza di sei anni, non si conosce il loro esatto indirizzo di residenza. Per la giustizia italiana, sono e rimangono dei fantasmi e, quindi, non è possibile notificargli alcun atto processuale: uno scoglio che, di fatto, impedisce una corretta celebrazione del processo nei loro confronti.
Il 15 luglio, la corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso della procura di Roma contro la sospensione del processo sull’omicidio del ricercatore dell’università di Cambridge. La decisione, di fatto, azzera la possibilità di far emergere la verità sulla vicenda, complice l’espresso rifiuto dell’Egitto di collaborare. In attesa delle motivazioni della decisione dei giudici del “Palazzaccio”, quello che emerge è che il principio del giusto processo – cioè, la garanzia che un imputato sappia di essere tale – viene usato come prova dell’impotenza delle autorità italiane, risolvendosi, purtroppo, in uno strumento per non fare giustizia.
La sospensione del processo nei confronti dei quattro agenti del servizio segreto civile egiziano Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, era stata disposta dal Giudice per le indagini preliminari del tribunale di Roma, sulla base di una decisione della corte d’Assise dell’ottobre 2021. Per la procura capitolina, che aveva chiuso le indagini nei loro confronti nel dicembre 2020 e chiesto il rinvio a giudizio nel gennaio successivo, sapere l’esatto indirizzo per la notifica degli atti non è necessario, se ci sono prove del fatto che gli imputati non vogliono conoscere il processo a loro carico.
Un caso-limite, certo, ma che è ammesso anche dal codice di procedura penale italiano. Del resto lo stesso Giudice per l’udienza preliminare del tribunale di Roma aveva disposto, a maggio 2021, che si procedesse in assenza dei quattro agenti egiziani, usando proprio l’articolo 420 bis. La norma sancisce che l’assenza dell’imputato non è un ostacolo per il giudizio «nel caso in cui risulti con certezza che lo stesso è a conoscenza del procedimento o si è volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo».
Sostanzialmente, il giusto processo non può essere garantito per chi è un “finto inconsapevole”. E di prove della conoscenza del processo, secondo il Gup che inizialmente aveva accolto le ragioni della procura, ce n’erano. Per citarne alcune, tra il 2016 e il 2018, i magistrati egiziani avevano sentito più volte i quattro imputati sugli ultimi giorni di vita del ricercatore, su espressa rogatoria internazionale della procura italiana che aveva già avviato le indagini nei loro confronti. Inoltre – si legge nell’ordinanza – i media egiziani avevano dato ampia risonanza al processo. Nell’atto si legge che Al Jazeera e altre emittenti avevano coperto la notizia del rinvio a giudizio dei quattro, nel gennaio 2021 e, poco prima, della chiusura delle indagini e delle accuse a loro carico: omicidio e tortura. E poi i molti tentativi, fatti anche per via diplomatica, di conoscere l’indirizzo dei quattro agenti. Nel gennaio 2020, l’ambasciatore italiano in Egitto, Giampaolo Cantini, aveva chiesto espressamente alla procura generale egiziana di consentire alla procura di Roma di «ricevere l’informazione relativa all’indirizzo (…) ove inviare gli atti di notificazione» agli indagati.
La corte d’Assise di Roma aveva ribaltato l’ordinanza del Gup dichiarandola nulla, insieme al rinvio a giudizio dei quattro imputati. Secondo la corte, se è vero che gli agenti erano stati sentiti dalle autorità egiziane per conto di quelle italiane, essi sapevano «dello stato delle indagini e dell’emergenza di elementi investigativi nei loro confronti» ma non dei «contenuti dell’accusa». Sulla risonanza mediatica del processo, i giudici hanno sostenuto che i media arabi, che pure hanno riportato quanto stava succedendo in Italia, non hanno fatto esplicito riferimento ai nomi e alle generalità degli imputati. D’altro canto, i giudici ammettono anche che, al momento dell’iscrizione degli agenti nel registro degli indagati, i nomi sono comparsi «nei media internazionali in lingua inglese ampiamente consultati anche all’interno del paese egiziano», come la Bbc, l’Associated Press, Arab News.
La corte d’Assise conclude dicendo che gli imputati sanno «con ragionevole certezza» che in Italia c’è un procedimento penale per gravi reati nei confronti di Regeni. Mancano, invece, gli elementi necessari per parlare – si legge ancora – dell’ «instaurazione di un corretto rapporto processuale», e cioè la sicurezza che gli agenti sono informati per filo e per segno di cosa sono accusati, ciascuno per il proprio ruolo nella vicenda, e del fatto che sono chiamati a rispondere dei loro comportamenti davanti alle autorità italiane. La corte aveva restituito gli atti al Gup che, preso atto del fallimento delle nuove ricerche e del rinnovato “no” dell’Egitto a una qualsiasi forma di collaborazione sul caso, aveva deciso di sospendere il processo. Nessuna giustizia, dunque, per Regeni. E non se ne vede in futuro perché, ai magistrati italiani, mancano gli indirizzi di casa degli imputati.