Rolling Stone Italia

Caso Ridolfi: in Italia è più facile morire di burocrazia che tramite suicidio assistito

Da 18 anni, Fabio Ridolfi è immobilizzato a causa di una patologia irreversibile: l'ostruzionismo dell'Azienda Regionale delle Marche ha rallentato le procedure che avrebbero potuto consentirgli di accedere al suicidio assistito. Per porre fine alle sue sofferenze, ricorrerà alla sedazione continua e prolungata

Una manifestazione per l'eutanasia legale. Emanuele Perrone/Getty Images

Fabio Ridolfi è un 46enne di Fermignano, in provincia di Pesaro, che da 18 anni convive con una patologia irreversibile. Nel 2004, durante una cena, ebbe un malore improvviso che gli provocò prima una perdita immediata dell’equilibrio e, in seconda battuta, l’intorpidimento della parte sinistra del corpo: gli fu diagnosticata una tetraparesi – una forma di paralisi che coinvolge contemporaneamente la muscolatura volontaria di tutti e quattro gli arti – che, nel corso del tempo, lo ha immobilizzato, costringendolo a subire passivamente una grande sofferenza.

Ieri Ridolfi ha deciso di morire attraverso il ricorso alla “sedazione profonda e continua”, una pratica prevista dalla legge sul testamento biologico del 2017. È stato lui stesso a comunicare la volontà di porre fine alle proprie sofferenze all’Associazione Luca Coscioni attraverso il puntatore oculare, lo strumento che gli permette di comunicare senza voce. «Da due mesi la mia sofferenza è stata riconosciuta come insopportabile. Ho tutte le condizioni per essere aiutato a morire, ma lo Stato mi ignora. A questo punto scelgo la sedazione profonda e continua anche se prolunga lo strazio per chi mi vuole bene».

Il problema è proprio questo: quella di Ridolfi non è una scelta libera ma soltanto un‘opzione di ripiego, una extrema ratio, il prodotto finale dell’ostruzionismo che l’Azienda sanitaria delle Marche contrappone a chiunque provi ad accedere al suicidio assistito – una possibilità che gli dovrebbe essere riconosciuta in base a quanto disposto dalla sentenza 242 della 2019 della Corte costituzionale, la cosiddetta sentenza Cappato. Tre anni fa, infatti, la Consulta ha stabilito che non è punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale (norma che si occupa di assistenza e istigazione al suicidio e che, di fatto, le equipara) «chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente». Questa possibilità, però, è riconosciuta a patto di integrare determinate condizioni – il paziente deve essere «tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale», deve essere «affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili» e deve essere «pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».

Requisiti che Ridolfi soddisferebbe alla perfezione ma che, purtroppo, hanno finito per scontrarsi contro con l’immobilismo e i ritardi dell’Asur Marche. Il 10 gennaio, l’uomo aveva chiesto all’associazione la verifica delle sue condizioni per poter accedere al suicidio medicalmente assistito, ma quest’ultima ha comunicato con 40 giorni di ritardo il parere favorevole del Comitato etico, mancando di esplicitare quale farmaco avrebbe potuto essere usato dal paziente per porre fine alle sue sofferenze.

«Fabio aveva un diritto – hanno dichiarato Filomena Gallo, segretario nazionale dell’Associazione Luca Coscioni e coordinatrice del collegio difensivo di Fabio Ridolfi, e Marco Cappato, attivista e tesoriere dell’Associazione – quello di poter scegliere l’aiuto medico alla morte volontaria, legalmente esercitabile sulla base della sentenza 242 della Corte Costituzionale. Un diritto che gli è stato negato a causa dei continui ritardi e dell’ostruzionismo di uno Stato che, pur affermando che ha tutti i requisiti previsti dal giudicato costituzionale e riconoscendo che le sue sofferenze sono insopportabili, gli impedisce di dire basta».

Così, Ridolfi si è ritrovato costretto a percorrere la strada della sedazione profonda: una soluzione lenta, che non accelera il percorso che porta al decesso del paziente e che esporrà le persone a lui vicine a giornate di prolungato dolore che avrebbero potuto tranquillamente essere evitate. Il quadro non cambia: c’è una sentenza che parla chiaro, ma mancano le condizioni materiali indispensabili per rendere effettivo il godimento di un diritto. Il risultato? In Italia è più facile morire di burocrazia che tramite suicidio assistito.

Iscriviti