Chi era Ruggero Perugini, il poliziotto che diede la caccia al mostro di Firenze | Rolling Stone Italia
Politica

Chi era Ruggero Perugini, il poliziotto che diede la caccia al mostro di Firenze

Morto lo scorso venerdì, è stato un personaggio da fiction. Addestrato dall'FBI, era noto per il suo appello in tv al Mostro di Firenze: "Tu sai come, quando e dove trovarmi, io aspetterò”. Questa è la sua storia

Chi era Ruggero Perugini, il poliziotto che diede la caccia al mostro di Firenze

Nel grande libro degli annali della cronaca nera italiana, il caso del Mostro di Firenze occupa un posto privilegiato. I sette duplici omicidi che, tra il 1974 e il 1985, hanno sconvolto prima la provincia toscana e poi plasmato il senso comune dell’intero Paese hanno finito per costituire qualcosa di simile a ciò che l’eccidio di Cielo Drive ha rappresentato per la cultura pop statunitense.

Nel bene – e soprattutto nel male – la condotta schizofrenica dell’accusa che ha caratterizzato tutte le fasi del processo, le testimonianze ai confini dell’assurdo di Pietro Pacciani, Mario Vanni e degli altri compagni di merende, le dietrologie e le suggestioni sulla “pista sarda”, l’iconica pistola calibro 22 con una “H” punzonata sul fondello, la possibile intromissione della massoneria fiorentina, le ipotesi relative ai feticci impiegati per propiziare presunti riti satanici e la distanza che separa la verità storica da quella processuale hanno inevitabilmente colonizzato l’immaginario collettivo nostrano, trasformando una vicenda che ha messo in mostra tutta la follia che impera nella provincia italiana nel mistero nazionalpopolare per antonomasia.

Oltre al sostituto procuratore Andrea Canessa, una delle personalità che ha maggiormente legato la propria fama alle inchieste sul Mostro è Ruggero Perugini, il “super-poliziotto” che con le sue indagini trasformò Pietro Pacciani nel personaggio che conosciamo oggi, ossia il capobastone – analfabeta ma dall’intelligenza criminale raffinatissima, come la struttura del più classico dei polizieschi americani imporrebbe – di una combriccola di guardoni affamati di sangue che ha guidato la regia delle uccisioni ed eseguito materialmente le amputazioni dei corpi delle vittime con una precisione ai limiti del patologico, il leader carismatico di una sorta di Manson Family declinata in chiave contadina.

Perugini è morto a Torino il 19 novembre all’età di 75 anni: come molti dei personaggi che caratterizzano il sottobosco del caso di cronaca più spaventoso e grottesco della storia italiana, era animato da una personalità forte e da tratti stereotipati enfatizzati fino all’estremo, quasi cinematografici.

Osservando le dichiarazioni che ha rilasciato alla stampa durante più di vent’anni di carriera, si ha quasi la sensazione di essere al cospetto di uno di quei personaggi di finzione scritti talmente bene da non sfigurare in una puntata di The Wire. Perugini non incarnava i tratti del poliziotto italiano idealtipico, fresco di Accademia e dal lessico istituzionale: assomigliava di più a un detective segnato dal tratto del genio tracimato dalle pagine di un romanzo hard boiled di Raymond Chandler, uno di quegli investigatori dal carattere rude e marcatamente disilluso che non si limitano soltanto a cercare di risolvere i casi, ma finiscono per identificarsi totalmente con essi, giungendo a non riuscire più a marcare il confine che separa la vita professionale da quella privata e immolando tutto ciò che hanno sull’altare della verità.

L’esempio più celebre di queste caratteristiche Perugini lo ha messo in mostra in occasione del famoso appello che pronunciò nel 1992, quando scelse di rivolgersi direttamente al Mostro di Firenze in diretta nazionale. Col favore della telecamera e una posa plastica ormai iconica, si prodigò in un discorso colmo di retorica che non faticheremmo ad attribuire al protagonista di uno di quei noir da 50mila copie che ci ruba l’occhio durante una sosta in Autogrill: “Io non so perché, ma ho la sensazione che tu in questo momento mi stia guardando, e allora ascolta”, disse, “La gente qui ti chiama mostro, maniaco, belva, ma in questi anni credo di avere imparato a conoscerti, forse anche a capirti e so, so che tu sei soltanto il povero schiavo, in realtà, di un incubo di tanti anni fa che ti domina”, culminando con una chiosa da fare invidia a Jo Nesbø: “Tu sai come, quando e dove trovarmi, io aspetterò”.

Probabilmente, Perugini sviluppò questa retorica da fiction anche a causa della sua esperienza pregressa: originario di Roma, dove era nato nel 1946, dopo gli studi universitari fece parte dell’Arma dei carabinieri. Successivamente decise di passare in polizia e, prima di porsi alla testa della “Squadra anti-mostro”, completò la propria formazione negli Stati Uniti. Iscrittosi alla facoltà di Criminologia dell’Università di Modena, si iscrisse all’accademia di Quantico, il luogo dove vengono formati i nuovi allievi destinati a diventare Agenti speciali dell’FBI, affrontando le ventuno settimane di corso necessarie.

Proprio grazie alla collaborazione con l’FBI, Perugini ricavò le competenze necessarie a stilare un profilo psicologico di chi poteva essere il Mostro tra i principali sospettati, in seguito a una lunga indagine che scandagliò le abitudini e gli spostamenti di Pietro Pacciani – che, durante il processo, identificò come “Il velenoso”, dichiarando come si trattasse di un criminale “raro, multiforme, dissimulatore”.

Fu proprio Perugini che, nell’aprile del 1992, trovò la cartuccia Winchester – elemento comune a tutti gli omicidi – nella storica perquisizione dell’orto del contadino di Mercatale, dando inizio a un filone di cronaca desinato a occupare le prime pagine dei giornali per lunghi anni. Lasciò la Sam a fine 1992, nel 1993 era a Washington all’ufficio di collegamento tra la DIA e l’FBI: un personaggio che ha segnato indelebilmente il mistero più indistricabile dell’Italia repubblicana e che rimarrà impresso nella memoria collettiva ancora per lunghi anni.