Non deve sorprendere il salvataggio di Banca Carige e la garanzia emessa dallo Stato nei confronti di azionisti e risparmiatori. Così come le difficoltà del Monte Paschi di Siena. Questo almeno in prospettiva storica. Lo Stato italiano, a dirla tutta, non ha mai avuto molti soldi. Nato dallo sforzo annessionistico del Regno di Sardegna e dalla volontà di una minoranza di attivisti, ha sempre avuto meno denaro in cassa di quello che gli occorreva per colmare il gap industriale, infrastrutturale e tecnologico con il resto del mondo sviluppato, in quegli anni incarnato da Francia e Inghilterra.
Per finanziare la sua ambiziosa politica, Cavour aveva dovuto chiedere onerosi prestiti al barone francese Rotschild e alla banca anglodanese Bank of Hambro. Il sistema creditizio, composto per lo più da monti di pietà con alcune eccezioni come il già citato Monte dei Paschi di Siena e la Cassa di Risparmio di Genova, futura Banca Carige, era fragile e poco aperto ai mercati internazionali. Anche il sistema di emissione della valuta era farraginoso, affidato alle ex banche degli antichi Stati italiani. Non sono ancora banche centrali: sono banche normalissime, che fanno attività di sportello, ma in più hanno il privilegio di stampare banconote. Non sorvegliano l’attività degli altri istituti di credito privati e non possono regolare la politica monetaria, incarico che la classe politica. Dopo la presa di Roma ci sono sette banche emettitrici di moneta e una di queste, la Banca Romana, ex Banca dello Stato Pontificio, diventa lo strumento privilegiato dei nuovi politici per finanziare industrie amiche e l’espansione edilizia di Roma quale capitale del nuovo Regno d’Italia. Non solo: vennero stampate anche banconote in eccesso rispetto al previsto per finanziare, tramite il corso forzoso, altre speculazioni immobiliari nella Capitale.
Lo scandalo esplode a fine 1892 ed è dirompente, anche se nel 1894 il processo assolverà tutti gli imputati, compreso il governatore della banca Bernardo Tanlongo e il cassiere Cesare Lazzaroni. Lo scandalo quasi distrugge la carriera del giovane statista piemontese Giovanni Giolitti, ministro del tesoro del secondo governo Crispi, mentre il premier stesso riuscì a non farsi coinvolgere troppo, nonostante alcuni tentativi di insabbiamento dello scandalo. Lo scandalo fece sì che venisse istituita una banca centrale propriamente detta, la Banca d’Italia, con il compito di supervisionare l’attività creditizia.
Proprio negli anni successivi sorsero due grandi banche, il Credito Italiano e la Banca Commerciale Italiana, entrambe partecipate da grandi capitali stranieri. La Banca Commerciale in special modo era legata a capitali tedeschi e austriaci ed era diretta da due cittadini germanici, Otto Joel e Federico Weil. Proprio per questo ancora una volta la politica entrò a gamba tesa nel sistema bancario alla vigilia della Prima Guerra Mondiale: l’ambizioso direttore del Banco di Busto Arsizio Angelo Pogliani decise di giocare la carta del nazionalismo e dell’irredentismo per ampliare gli affari del suo istituto e, con l’arrivo di capitali francesi, fondò la Banca Italiana di Sconto, una banca che fu cruciale nel fornire i mezzi per raccogliere i prestiti di guerra e finanziare l’entrata dell’Italia nel conflitto.
Con l’avvento del fascismo e la Grande Depressione le banche sembrarono trovare nel governo Mussolini un amico e un alleato per la loro espansione, senza tutte quelle scocciature del parlamentarismo che tanti problemi aveva dato alla banca romana. La politica liberista del ministro delle finanze Alberto De Stefani è musica per le orecchie dei banchieri italiani. Questa politica cambiò radicalmente dopo la crisi del 1929. Le banche italiane si trovarono in forte crisi di liquidità per le conseguenze del crollo dell’economia americana e il governo fascista ne approfittò per porre condizioni capestro per il salvataggio: il rilevamento delle quote da esse detenute nelle maggiori industrie italiane tramite l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, l’IRI, fondato dall’ex deputato socialista Alberto Beneduce, che costituì in questo modo un grande impero industriale pubblico, che nelle intenzioni iniziali del regime doveva essere temporaneo, ma con le sanzioni comminate all’Italia in seguito all’annessione dell’Etiopia, divenne permanente e sopravvisse al regime, arrivando a influenzare la politica economica della Prima Repubblica. Che poteva vantare quindi diverse banche in mano pubblica, come le già citate Banca Commerciale Italiana e Credito Italiano, ma anche il Banco di Roma. Oltre che banche d’affari come la Sofiri e altre banche che erano qualificate come “enti di diritto pubblico”, ovverosia come prestatori di denaro agli enti pubblici, a rappresentazione della permeabilità delle stesse all’influenza della politica.
Non è questa la sede per spiegare gli eventi degli ultimi anni e ancor meno degli ultimi mesi. Ma si può comunque affermare che una delle anomalie italiane, ma non solo, è questa dipendenza delle banche dalla politica, che non le rende in grado di operare in piena libertà sul mercato. E quando avviene, spesso è proprio la mano pubblica a mettersi di traverso.