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Ci siamo già passati: il consenso comprato a colpi di deficit

Destra e Sinistra storica, la doppia fase della politica economica fascista, il rigore liberale del dopoguerra. Breve storia della gestione schizofrenica dei nostri conti pubblici

Guerra ai prodotti stranieri e autarchia, in "L’Illustrazione italiana" n.45, 10 novembre 1935

C’era una volta un piccolo stato europeo, povero e marginale, che aveva lanciato un ambizioso piano di sviluppo infrastrutturale ed industriale. Per farlo, dovette indebitarsi profondamente con un grande banchiere parigino, James Mayer dde Rothschild. Questo era il Regno di Sardegna negli anni ’40 dell’Ottocento. Parte da qui la lunga storia italiana di lotta contro il deficit di bilancio. Iniziata per recuperare uno svantaggio strutturale, negli anni è diventata qualcos’altro.

Lo storico americano di origine austriaco Alexander Gerschenkron diceva che più un paese è arretrato, più veloce sarà il suo sviluppo industriale. Paolo Cirino Pomicino, ministro del bilancio degli ultimi governi Andreotti, ha affermato in un’intervista televisiva di qualche anno fa: “Per mantenere in equilibrio tanti interessi contrastanti, alla fine ha pagato Pantalone”. Come si è passati da esigenze di crescita economica e di investimenti alla semplice compravendita di consensi?

Bisogna dire che governi della Destra Storica, successivi a quelli cavouriani presero molto sul serio la questione dei conti pubblici. I costi dell’assorbimento nel nuovo Regno d’Italia di molti piccoli stati furono estremamente gravosi e in caso di mancato pagamento del debito la giovane nazione italiana rischiava di perdere la fiducia degli investitori internazionali, in questo periodo principalmente britannici. Quintino Sella, ministro delle finanze dal 1869 al 1873, lanciò una campagna per tassare i redditi e i consumi, utilizzando anche provvedimenti estremamente impopolari come la tassa sul macinato.

Questi provvedimenti consentirono al governo di Marco Minghetti di raggiungere il sospirato pareggio di bilancio nel 1875, ma a un prezzo elevato: la caduta del suo esecutivo e l’ascesa della Sinistra Storica. Negli anni successivi vengono allentate queste misure austere e non si pensa più all’equilibrio dei conti pubblici, troppo gravoso da raggiungere sia per la popolazione, che in larga parte aveva problemi sia di istruzione che di mera sopravvivenza, sia per i governi, che rischiavano di dover affrontare disordini e rivolte spontanee.

La minaccia rappresentata dalla fondazione del Partito Socialista fece sì che il nuovo uomo forte della politica italiana ricorresse a metodi radicali per poter ottenere il consenso necessario alla stabilità politica: il voto di scambio. I parlamentari fedeli al governo arrivarono a promettere la realizzazione di opere quali strade, acquedotti e ferrovie soltanto se gli elettori del collegio interessati avessero votato per il candidato sostenitore del governo. Da quel punto in poi, qualcosa nello scenario politico italiano cambia.

I governi, che già conoscevano da tempo il fenomeno del trasformismo, adesso diventarono sempre meno ideologici e sempre più dipendenti da interventi particolari e mirati di dubbio interesse generale. In questo senso il regime fascista fu una parentesi: se nel 1925 venne raggiunto il pareggio di bilancio grazie all’oculata politica monetaria del ministro delle finanze Alberto De Stefani, nell’anno successivo il ministro era cambiato. I disegni di legge preparati dal ministro contro la speculazione borsistica erano piaciuti poco ad alcuni sostenitori del governo tra gli industriali e così uno di loro conquistò lo scranno governativo, ovvero il conte Volpi, rappresentante degli interessi dell’industria elettrica. Anche Mussolini in seguitò alla crisi del 1929 abbandonò del tutto le velleità rigoriste in favore di una politica moderatamente espansiva prima e spendacciona oltre ogni limite per sostenere gli sforzi bellici in Etiopia prima e su scala europea e mondiale poi.

Nel dopoguerra, caduto il regime i governi centristi guidati da Alcide De Gasperi, su consiglio del governatore della Banca d’Italia Luigi Einaudi, intrapresero una politica monetaria rigida e liberista, guadagnandosi il plauso di riviste economiche americane come Fortune e Businessweek. Anche i soldi del piano Marshall finirono perlopiù in iniziative di consolidamento dei bilanci pubblici e anche nella fase delle prime nazionalizzazioni degli anni ’60 i governi appoggiati dal Psi tennero conto delle preoccupazioni degli economisti. Fino agli anni ’70 quando complice l’avvento del terrorismo i governi a guida democristiana, per tenere insieme i contrastanti interessi di imprenditori e lavoratori si usò la leva del deficit: sia per l’ampia tolleranza concessa all’evasione fiscale, sia per l’elargizione delle cosiddette baby pensioni, sostenibili solo con un ritmo di crescita del 5% annuo costante.

E veniamo agli ultimi anni: nonostante le progressive regole imposte dall’Unione Europea sul pareggio “tendenziale” di bilancio (provvedimento avvallato anche da Roma), il poter “fare deficit” è stato visto come una panacea per le durezze imposte dalla crisi economica post 2008, ormai definibile come momento trasformativo dell’economia mondiale e caratterizzata dalla crescita impetuosa dei grandi paesi asiatici. Questo deficit però sarebbe andato in larga misura a spese correnti o a investimenti dalla dubbia utilità, pur essendoci delle eccezioni a questo andazzo quale la costruzione della rete ferroviaria ad alta velocità. In questo modo anche l’Italia del governo Conte si trova in un’impasse, stretta tra la scarsa fiducia degli investitori (tra i quali ci sono anche i risparmiatori italiani) e la necessità di tenere insieme una coalizione di interessi contrastanti che sostengono i partiti di governo.

Difficile dire quale potrebbe essere la via di uscita da questo continuo indebitamento. Al momento non è stata trovata. E se ci fosse si tratterebbe di una strada troppo difficile da percorrere.

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