Cosa succede quando si forma una coalizione tra due forze politiche dai leader mediaticamente forti e difficilmente compatibili? Si sceglie una figura terza che garantisca equidistanza quale quella del professor Giuseppe Conte, definita da Mario Monti sul Corriere della Sera il 29 settembre “presidente di un patto di sindacato” tra due azionisti principali, come si trattasse di un garante scelto per avviare un nuovo assetto aziendale.
L’attuale presidente del consiglio Giuseppe Conte quindi servirebbe come collegamento tra il Movimento 5 Stelle e la Lega, e dopo una stagione politica di premier forti e accentratori quali Silvio Berlusconi e Matteo Renzi, questo sembra parecchio strano. Ma nella Storia politica italiana questa formula ha funzionato diverse volte. A cominciare dalla prima coalizione parlamentare, il Connubio tra Camillo Benso Conte di Cavour e Urbano Rattazzi, varato nel 1852, prima dell’Unità d’Italia, patto che mise ai margini i due uomini forti della politica piemontese, il leader della Destra Thaon di Revel e quello dell’estrema sinistra Angelo Brofferio.
Cavour inizialmente era un politico di secondo piano che si poneva come mediatore tra le due tendenze, ma riuscì a stupire i contemporanei per la sua capacità di costruire un proprio profilo di statista. Nel periodo postunitario le forte personalità a guida delle fazioni parlamentari quali Francesco Crispi o Giovanni Giolitti spesso rischiavano di farsi intrappolare e distruggere in scandali di varia natura, come quello della Banca Romana o la disfatta delle truppe coloniali ad Adua. Per evitarlo a volte cedevano la poltrona di capo del governo a una figura secondaria che potesse mediare con la fazione avversaria di turno e barcamenarsi nell’accidentata navigazione parlamentare, dove i cambi di casacca erano molto frequenti e un governo poteva venire bruciato nel giro di pochi mesi.
Il caso più clamoroso fu la scelta di Luigi Facta, fedelissimo di Giolitti scelto per affrontare nel momento decisivo l’ascesa del movimento fascista. Una volta che questi avesse fallito, l’anziano statista piemontese sarebbe tornato in gioco e avrebbe ridotto i seguaci di Mussolini a una delle tante fazioni parlamentari. Non andò proprio così.
Siamo però ancora ben lontani dal vero precedente della situazione attuale, quello che si è prodotto dopo le elezioni politiche del 1987. I due principali partiti dell’area di governo, la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista, si erano profondamente rinnovati ed erano guidati da due politici ambiziosi quali Ciriaco De Mita e Bettino Craxi, che li avevano forgiati quali moderni partiti incentrati sul messaggio politico di rinnovamento incarnato dal corpo del leader, volto mediatico del Partito.
Le liturgie della Prima Repubblica, come le correnti e la gestione collegiale, sembravano definitivamente accantonati. Dopo diverse elezioni in cui il premier veniva scelto in Parlamento grazie a un accordo siglato nelle segrete stanze e all’insaputa dell’opinione pubblica, stavolta Craxi e De Mita non facevano mistero di essere loro, i candidati alla poltrona di presidente del consiglio. Ma anche allora, come dopo le elezioni 2018, non c’erano alternative praticabili alla formula del Pentapartito. Certo, Craxi era reduce da quattro anni di governo consecutivi e non poteva rivendicare per sé la guida del governo, quantomeno non in prima battuta. Ma nemmeno avrebbe lasciato via libera al suo alleato-avversario. Ergo, che fare? La soluzione più ovvia: scegliere una figura terza, quella di Giovanni Goria, esponente di una corrente minoritaria della Dc, quarantaquattrenne e già ministro con deleghe diverse in varie occasioni. Certamente non un peso massimo.
Ma a differenza di Cavour, Goria non seppe liberarsi dall’ingombrante tutela degli azionisti di maggioranza del suo governo e alla fine De Mita riuscì a sostituire il presidente del consiglio spiazzando Craxi, che lo aveva affossato con il suo dissenso riguardante i lavori in corso su una centrale nucleare in via di dismissione e che in quel momento fu costretto ad accettare il fatto compiuto.
Ma c’erano comunque delle differenze sostanziali con la situazione attuale. Per quanto di secondo piano, Goria era un politico esperto, capace comunque di costruirsi una propria corrente e di conoscere bene i meccanismi parlamentari. Nel caso di Giuseppe Conte, invece, abbiamo a che fare con un neofita della politica che deve affrontare quotidianamente due leader come Luigi Di Maio e Matteo Salvini che hanno il completo controllo delle proprie forze politiche e che attraverso i loro profili sui social network informano i loro seguaci sullo stato delle cose, formando così uno zoccolo duro pronto alle future battaglie.
Non sappiamo ancora se Giuseppe Conte sarà sconfitto da due leader arrembanti. Di sicuro sappiamo che, pur supponendolo animato dalle migliori intenzioni, il suo compito di mediatore è estremamente difficile ed è improbabile, per quanto non impossibile, che il suo mandato di presidente del consiglio arrivi in fondo alla legislatura.