Nel 1861 venne fatta l’Italia. E prima di fare gli italiani, la nuova nazione dovette affrontare, con l’avvento del brigantaggio, un impellente problema di sicurezza. Problema che non sarebbe mai uscito dal dibattito pubblico, come dimostrano i recenti fatti di Arezzo, dove l’opinione pubblica si è divisa tra sostenitori della libertà di uso delle armi entro i confini del domicilio e chi invece accusa la vittima del furto di aver reagito “esageratamente” e pertanto di meritare un processo.
Entrambe le posizioni non colgono nel segno, ignorando la vastità della questione. Che riguarda due elementi fondamentali per la costituzione degli stati moderni: il monopolio dell’uso della forza e il controllo del territorio. Entrambe le problematiche si presentarono con tutta la loro impellenza all’indomani dello fondazione della giovane monarchia italiana. Protetti dalla scudo diplomatico dello Stato Pontificio, la deposta dinastia dei Borbone finanziò e armò numerose bande di briganti che seminarono il terrore nei territori dell’ex Regno, attaccando guarnigioni militari e civili. Militari che, complici i pregiudizi dell’epoca, non andarono affatto leggeri.
Il governo, dopo aver dichiarato lo stato d’assedio nelle nuove regioni meridionali, con la legge Pica del 1863 scritta dal deputato abruzzese Giuseppe Pica si spinse oltre: istituì il reato di “brigantaggio”, da affrontare con i tribunali militari, che potevano comminare esecuzioni sommarie o lavori forzati a vita, sospendendo quindi l’uguaglianza di fronte alla legge per i cittadini e introducendo per la prima volta la figura dei “pentiti”. Nel 1865 la legge venne abrogata, non senza aver provocato un forte risentimento in vaste zone della Penisola.
Il problema dell’ordine pubblico e della sicurezza si ripropose all’indomani della Grande Guerra, quando i socialisti massimalisti dichiararono di voler fare “come in Russia” ed iniziarono a occupare le fabbriche, la piccola e media borghesia cominciò a temere per i propri averi e a paventare soluzioni autoritarie. E a poco valse che, negli anni successivi, le violenze fasciste oscurarono per la loro intensità di molto quelle socialiste. E che loro, tanto quanto gli emuli dei bolscevichi, utilizzarono una forma extralegale di violenza. L’apparato statale, incapace di sedare la violenza, decise di sposare una delle due parti in causa il 31 ottobre 1922, data del conferimento dell’incarico di governo al capo del fascismo Benito Mussolini.
Quello Stato che aveva schiacciato con intensità il brigantaggio e tenuto a bada i socialisti, garantendo anche una tenuta del fronte interno durante la Prima Guerra Mondiale cedeva a una marcia ostile fatta da un movimento nazionalista e ostile al liberalismo. Era la sua resa. Il nuovo regime decise a modo suo di rafforzare il controllo del territorio, istituendo uno regime che ambiva al totalitarismo. E a farne le spese fu, per la prima volta, il porto d’armi. Nel nuovo Codice Penale varato nel 1931 vennero introdotte serie restrizioni al possesso d’armi. La ragione pratica era quella d’impedire che potessero avvenire attentati alla vita del Duce o di altri esponenti fascisti, ma quella più profonda era di natura filosofica: il regime avrebbe pensato a tutto. I cittadini non avrebbero più avuto bisogno di difendersi, ci avrebbe pensato lo Stato Nuovo. Tutto questo collassò dopo l’8 settembre, dove il fascismo di Salò riassunse la sua natura di forza terroristica contro la popolazione civile.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, lo scarso controllo del territorio da parte della neonata Repubblica perdurò persino nelle grandi città. Basta leggersi alcuni racconti di un giovane cronista del Corriere della Sera, Dino Buzzati, che descrive una Milano terrorizzata dalle rapine, facilitate dall’ampia circolazione delle armi rimaste anche dopo la richiesta di consegna da parte degli Alleati. Ma in questa fase le leggi tennero, e anche se la brutalità poliziesca non mancò di colpire alcune manifestazioni della sinistra, non si alterò la lettera della legge. Cosa che invece avvenne negli anni Settanta, nei cosiddetti anni di piombo.
La legge Reale introdusse la detenzione preventiva estendibile anche a dieci anni per i sospetti di terrorismo e tolse i limiti all’uso delle armi da parte delle forze di polizia, che potevano usarle per “impedire la consumazione di delitti” di varia natura. Fu oggetto di un referendum abrogativo nel 1978, che venne respinto anche con il consenso del principale partito di opposizione, il Partito Comunista Italiano. Tre anni più tardi, un referendum per abrogare le norme sul porto d’armi, promosso dal partito radicale, venne duramente bocciato dagli elettori con l’85% di no. La stagione del terrorismo si spense, non solo per la repressione ma anche per la stanchezza di buona parte della popolazione italiana. Ma la legge Reale rimase ugualmente in vigore.
Arrivò un’altra stagione di insicurezza, quella delle rapine in villa negli anni Novanta. Venne accusata l’immigrazione incontrollata di questo, anche se nessuna correlazione tra i due fenomeni è stata mai dimostrata. Sintomo però, ancora una volta, di una debolezza da parte dello Stato. Ed eccoci all’oggi, con il caso del gommista Fredy Pacini che si trova ad affrontare un furto nella sua azienda. Non è questa la sede per determinare le dinamiche della vicenda. Ma come in altri casi analoghi, le leggi vigenti probabilmente saranno adeguate nel determinare la proporzionalità del gesto. Ciò che non è all’altezza è quella che dovrebbe essere un cardine di un governo con una forte componente di destra, ovverosia la sicurezza dei cittadini.
Ci vuole del tempo, è vero. Ma al momento pare che l’aspetto organizzativo delle forze di polizia non sia nei primi pensieri del titolare dell’interno. Che a questo punto però dovrebbe decidere se vuole essere ricordato come il politico più social d’Europa, oppure come l’uomo che ha ripristinato uno dei pilastri della moderna concezione di Stato, con il controllo efficace del territorio.