“Immaginate come viene narrata l’adolescenza nei libri, nei film, nelle storie di gioventù di genitori e nonni. Il momento più bello della vita di qualcuno, in cui sei più libero e cominci a costruire quello che sarà il tuo percorso, costruisci le relazioni più importanti, hai i primi amori, ti interessi delle prime cose che poi caratterizzeranno il tuo percorso come cittadino, come adulto, come essere umano. Ora immaginate cancellare tutto questo dalla vita di qualcuno: è come togliere un piolo dalla scala che dovrebbe farti raggiungere il piano successivo. E non si sa bene se quel piolo ricomparirà e si sarà in grado di riaverlo e come”. Come tutti i suoi coetani, quando Marco Nimis, studente di Padova attivo nella rappresentanza studentesca, ha compiuto 18 anni nel gennaio 2020, non aveva la minima idea di cosa lo aspettasse nell’anno del raggiungimento della sua maggiore età.
Prima con i lockdown che hanno stretto milioni di studenti dietro agli schermi di computer e tablet per seguire le lezioni, poi con il susseguirsi di affermazioni contraddittorie sul ritorno in classe, agli adolescenti come Marco è parso di scomparire dai radar. “Sembra che serva ricordare costantemente a tutti che gli studenti esistono”, racconta al telefono. “Fin dall’inizio della pandemia si è subito cominciato a parlare di chi soffre di più facendo quasi una gara a chi stesse più male – gestori di negozi, ristoratori, malati nei letti d’ospedale, tutte le categorie di lavoratori – e molto spesso i giovani sono stati esclusi da questa narrazione. Anzi, sono stati considerati quasi sempre come capro espiatorio, responsabili, untori. Mai come vittime delle problematiche legate al virus”.
In netta minoranza demografica rispetto ad adulti ed anziani, assenti nelle istituzioni e spesso non ancora inseriti in un mondo del lavoro che appare loro sempre più ostile, i problemi dei teenager sono effettivamente stati accantonati di fronte ad un’emergenza sanitaria ed economica che pur riguarda anche loro. A partire dalla salute mentale. “La cosa che caratterizza di più di 18 anni astrattamente è un senso di libertà che in qualche modo prima non avevi e inizi ad ottenere: se nel momento in cui ottieni la libertà subito dopo per cause di forze maggiori è una libertà collettiva che viene meno – quella dello spostamento, quella di vivere feste, concerti, ma anche solo passare tempo con i tuoi amici e i tuoi familiari – viene a sgretolarsi tutto quello che caratterizzava i diciott’anni”, spiega Marco, “quel senso di libertà ti viene tolta per un bene maggiore”.
I risultati si percepiscono: se i disturbi d’ansia e depressivi erano già in aumento da anni tra i più giovani, l’isolamento sociale dato dalla pandemia non ha fatto che peggiorare la situazione, come aveva già fatto notare in primavera la presidente dell’Ordine degli psicologi della Toscana Maria Antonietta Gulino. “Con i portoni chiusi da febbraio i ragazzi italiani si sono trovati a sostituire i banchi con il pc, le finestre di scuola con quelle di casa, i familiari con gli amici di classe, lavorando comunque da casa con una serietà che ha stupito genitori ed insegnanti, ovvero gli adulti con cui in adolescenza sono per definizione in opposizione o in fase di differenziazione”, ha affermato la psicologa. “Come a seguito di un incantesimo sono spariti, loro e i loro colleghi bambini, pare che ci si sia dimenticati di loro. La socialità dentro e fuori la scuola, gli obiettivi dei programmi formativi, la ricreazione o le assemblee segnano quella normalità necessaria ad un adolescente in crescita”.
La diciottenne Chiara Nicchiniello può confermare. “Il semestre scorso c’erano dei professori che non capivano davvero nulla della situazione che stavamo vivendo. In televisione vedevo gente che veniva portata via nelle bare in massa, ero a maggior ragione spaventatissima in quanto persona immunodeficiente, e i professori non facevano che assegnare sempre più interrogazioni e compiti. Stavo uscendo di testa, era bruttissimo. E anche per loro immagino non debba essere stato facile”.
Per molti, ha significato mettere in discussione tutto. “Nella mia scuola prima del Covid c’era uno sportello d’ascolto gratuito dove si poteva andare a fare anche solo una chiacchierata con qualcuno, il che non è banale. Da quando siamo in quarantena lo sportello non esiste più, cosa gravissima considerata la situazione che colpisce tutti ad un livello sia personale che collettivo”, racconta il neodiciottenne Niccolò Contin, di Cagliari. “Avevo una compagna di classe preoccupatissima dal tornare in didattica a distanza, perché sosteneva che non ce l’avrebbe fatta psicologicamente. Non so ora come stia. Un grande numero di persone ha avuto sicuramente impatti negativi dal punto di vista psicologico. Ma ho conosciuto anche coetanei che non vedevano l’ora di tornare in didattica a distanza perchè magari non sono molto interessati allo studio e quindi volevano restare a casa, svegliarsi tardi, fare un determinato stile di vita”, aggiunge.
Quello dell’abbandono scolastico è un altro grande problema inascoltato. Secondo dai dell’Unesco pubblicati a marzo, dall’inizio della pandemia sono 1,6 miliardi gli studenti che al mondo hanno smesso di andare a scuola. Sempre a marzo l’Istat dipingeva un’Italia in cui oltre il 33% delle famiglie italiane non aveva un computer o tablet a disposizione a casa – la punta dell’iceberg di una disuguaglianza tecnologica che ha diviso gli studenti di fronte alla didattica a distanza.
“La didattica a distanza riesce molto meno, o non incide affatto, per quei ragazzi la cui famiglia è totalmente assente o impegnata in emergenze quotidiane ritenute più importanti della scuola”, ha spiegato Pio Mirra, presidente dell’istituto ‘Pavoncelli’ di Cerignola, in provincia di Foggia. “Allora il suo vero limite nella didattica a distanza”, spiega Mirra, “è che non riesce a raggiungere la parte più fragile degli studenti, che ogni anno sono a rischio di dispersione o sono già dispersi. La didattica a distanza non è la causa delle disuguaglianze scolastiche, e quindi sociali, ma in quarantena le mette in evidenza e le amplifica. Finisce, quindi, con l’acuire il disagio di alcuni studenti e, in buona sostanza, rende ancora più ampia la dispersione scolastica”.
A riflettere su questa possibilità è anche Marco Nimis. “Ho sentito di talmente tanti coetanei che stanno vivendo talmente male la scuola e talmente come un peso inutile la didattica a distanza da aver deciso di mollare gli studi e andare a lavorare a diciott’anni”, racconta Nimis, che tratta queste tematiche in un percorso di attivismo studentesco vissuto fin dalla prima nella Rete degli Studenti Medi. “Vedere adesso tanti di quei problemi ai quali per anni abbiamo cercato di trovare soluzioni crescere così esponenzialmente in così poco tempo è preoccupante e triste”. Ed è anche una cosa personale: “io per primo non avrei mai pensato di arrivare a un momento della mia vita in cui potessi pensare ‘no, io non la voglio neanche fare la maturità, non mi servono le lezioni che sto facendo, non sto imparando nulla, preferirei fare qualsiasi altra cosa’. Ma mi è capitato di pensarlo, e mi ha spaventato”.
All’orizzonte, l’incertezza. A novembre la disoccupazione giovanile in Italia superava il 30%, e i giovani tendono comunque ad essere occupati, secondo l’ILO, nei settori più sensibili agli shock di reddito: più di quattro giovani lavoratori su dieci erano impiegati, prima della crisi, nei settori considerati tra i più colpiti dal Covid-19. A ciò si aggiunge la sospensione e la cancellazione di tirocini, scambi internazionali, prime opportunità.
A distanza di poco più di sei mesi, poi, ancora non si sa nulla sulla maturità. “A me sembra che non ci sia nulla di certo”, commenta Giulia Lupieri, diciottenne della provincia di Udine. “Cose che erano punti di riferimento, come la semplice maturità, non sono più certe.. Mi sembra che non si vada in nessuna direzione precisa, sembra tutto senza punto”. Il risultato? “Il fatto di trovarsi limitati negli svaghi, nella scuola, in tutto mi ha fatto un po’ perdere di vista l’obiettivo. Mi sembra tutto senza un punto, non riesco a trovare obiettivi su cui focalizzarmi, per cui impegnarmi”. Anche la patente è posticipata: “Ci sono autoscuole solo in centro, quindi da quando siamo diventati zona gialla e poi arancione non sono più potuta andare. Non ho ancora cominciato – e mi aspetto che d’ora in poi i miei impegni scolastici non faranno che aumentare”.
“Sto finendo quella che è stata fin qui l’esperienza più importante della mia vita, le superiori, effettivamente non andando a scuola”, riflette invece Marco. “Forse è la cosa che mi fa più paura, ancora più dell’esame o dei risultati scolastici: l’idea di non aver avuto un momento per dire addio alla scuola, poter dire “ecco, questo è l’ultimo intervallo che passo con i miei compagni”, “questo è l’ultimo collettivo o corteo che organizzo”, che mi sono passati davanti senza che io sapessi che potevano essere gli ultimi. Non penso questo cambierà i miei piani: sono sempre convinto di andare all’università, ma chiaramente so che io come tutte le persone della mia generazione che stavano facendo gli ultimi due anni, e forse ancora di più chi ha cominciato la scuola non in presenza, avremo delle lacune più relazionali che nozionistiche”.