È passato appena un mese dal lockdown imposto dal governo e ho già perso il conto sulla quantità di fake news che sono circolate su Whatsapp nelle ultime settimane. Spesso, la prima spia utile a capire che sto per leggere una boiata è la spunta in alto con scritto “messaggio inoltrato”. Dall’acqua calda da bere più volte al giorno per purificare le vie aeree, fino alla vitamina C. Alcune hanno riscosso più popolarità di altre, tanto che il Ministero della Salute francese ha dovuto avvertire la popolazione che “la cocaina non protegge dal coronavirus” e l’OMS ha dovuto fare lo stesso con la candeggina e il metanolo dopo che in Iran è morta della gente che aveva provato a curarsi così.
Il fatto che le fake news, queste settimane, abbiano viaggiato soprattutto tramite Whatsapp e non sui social network ci dice due cose: in primis, che i social network, quando vogliono, possono bloccarne la diffusione. Ma soprattutto, ci danno prova della loro resilienza e viscosità e che, bloccato un accesso, ne trovano un altro. A sorprendere di più, però, è stata l’inusuale prontezza e fervore con cui i grandi colossi del big tech come Facebook, Google e Twitter hanno risposto alla pandemia, per evitare che alla minaccia sanitaria se ne aggiungesse un’altra, di tipo informativo – un’infodemia.
Le azioni messe in campo sono state tempestive ed efficaci, e vanno tutte nella stessa direzione: indirizzare i propri utenti verso informazioni accurate. Se digiti qualcosa su Google a proposito del virus, la ricerca innesca un SOS alert che ti rimanda subito alle pubblicazioni ufficiali dell’OMS. Su YouTube, i video con contenuti falsi, non accertati, o che fanno riferimento a metodi con cui prevenire il virus, vengono rimossi rapidamente. Facebook, Twitter e Google hanno fornito crediti pubblicitari gratuiti all’OMS, hanno rimosso gli annunci pubblicitari che cercavano di lucrare vendendo mascherine e disinfettanti, e fanno il possibile per rimuovere costantemente le informazioni false e le teorie del complotto. È un cambiamento netto per aziende che fino a poco tempo fa erano restie a intervenire nel funzionamento dei loro algoritmi: l’arrivo della pandemia ha modificato il loro approccio in una direzione più attiva e interventista, come se improvvisamente avessero preso atto delle proprie responsabilità.
In questo senso, infatti, la grande crisi sanitaria potrebbe rivelarsi un’opportunità che i colossi del settore non vogliono lasciarsi scappare. Dopo la sbornia delle elezioni presidenziali del 2016, gli americani hanno iniziato a fare i conti con la vasta portata e l’influenza delle grandi piattaforme tecnologiche: diversi sondaggi hanno fatto emergere che il pubblico è sempre più scettico nei confronti dei giganti tecnologico, sempre più preoccupato per il loro potere e per il loro impatto sulla società e che comincia a pensare possa essere un bene spezzarne il monopolio. Come ha fatto notare Casey Newton su The Verge, “Con le molteplici indagini in corso contro i giganti della tecnologia sia a livello statale che federale – e con la minaccia di una regolamentazione ancora maggiore nel caso in cui un democratico vincesse la presidenza – ci sono buone ragioni perché le aziende prestino attenzione all’aumento del sentimento anti-tecnologico”.
E così è stato. Mentre ce ne stiamo rinchiusi nelle nostre case, i social network sono diventati la nostra principale arma di distrazione e consolazione. Il tempo passato online è cresciuto come è cresciuta la curva dei contagi, in modo esponenziale. Ma il modo in cui si presentano oggi le loro homepage, i banner e i filtri sono cambiati. Sono più rassicuranti. Facebook, Google e Twitter hanno ricevuto complimenti per le loro risposte alla pandemia, tanto da indurre molti a pensare che l’attuale crisi sanitaria possa essere il punto di svolta per scrollarsi di dosso l’immagine di “forza tossica”, “antisociale” e di “pericolo per la democrazia” che la stampa, il Congresso e gli enti regolatori erano riusciti a cucirgli addosso.
Dal 2016, la scia aperta dalle interferenze russe nelle elezioni presidenziali e poi proseguita con lo scandalo di Cambridge Analytica ha proiettato Facebook nel periodo più impegnativo della sua storia. Lo scandalo ha portato a una multa record di 5 miliardi di dollari, e nel 2019 sono state avviate quattro distinte indagini antitrust contro l’azienda. Dalle parti di Google, la musica è simile. Nel settembre 2019, alcuni membri del congresso USA sulla crisi climatica avevano scritto una lettera al CEO di Alphabet, la holding che controlla Google, chiedendo di agire contro la disinformazione sul clima diffusa su YouTube. Per anni, infatti, gli algoritmi di YouTube hanno spinto milioni di spettatori a guardare video di disinformazione climatica. Google ha rimandato gli interventi per mesi e, solo da poco, ha iniziato ad aggiornare le politiche per arginare questo fenomeno. E anche Twitter fronteggia ormai da anni le accuse per essere stato utilizzato come strumento di propaganda da diverse organizzazioni terroristiche.
Insomma, il sentimento anti-tecnologico è crescente perché il monopolio genera risentimento. Per descrivere la risacca di fiducia creatasi dopo l’ondata di ottimismo dei primi anni 2000 che ha interessato le grandi aziende tecnologiche, l’Economist ha coniato il termine “techlash”. La traduzione letterale è pressoché impossibile, ma “lash” significa frusta e rende bene l’idea di quanto siano stati duri gli scandali che hanno colpito i colossi informatici negli ultimi anni. Adesso il New York Times ha avanzato l’ipotesi che la pandemia possa consentire al settore di “mantenere la vecchia promessa di democratizzare l’informazione e prosciugare la palude dell’informazione tossica”.
Ricostruire la fiducia con il pubblico da un giorno all’altro non è facile, e sicuramente c’è da essere felici delle azioni messe in campo e dalla collaborazione vista finora. Ma è lecito chiedersi anche dove finisca il buon senso e dove inizino i loro interessi. In tanti hanno fatto notare come queste aziende abbiano molto da guadagnare nel rispondere con successo alla situazione di emergenza, sia in termini di buona pubblicità, sia entrando ancora più a fondo nella vita dei loro utenti. Una buona gestione della crisi potrebbe rallentare, o invertire del tutto, il declino di fiducia degli ultimi anni. E, chissà, allentare le pressioni del Congresso e degli enti regolatori, e influenzare le indagini statali e federali ancora in corso sulle questioni dell’antitrust e della privacy.