Il primo lunedì dopo quel 13 novembre, Arthur Dénouveaux ha fatto colazione, si è infilato i soliti jeans, e ha preso il metrò «stringendo i denti», dice, per andare al lavoro. Una volta alla scrivania, ha acceso il computer, letto Le Monde, Libération, e poi anche il Daily Mail, il famoso tabloid inglese.
Quando il sito si è caricato interamente sullo schermo, lì, solo lì, ha capito che la sua vita era cambiata per sempre. Nell’articolo di apertura dedicato alla strage del Bataclan, c’era a tutta pagina una sua foto. Sorrideva accanto a Maria, un’amica inglese, e Medina Rekic delle White Miles, il gruppo di apertura che ha suonato prima degli Eagles of Death Metal. «Solo davanti a quell’immagine ho realizzato che le cose non sarebbero mai tornate come prima: non ero più quella persona spensierata. Il secondo dopo l’irruzione dei terroristi nella sala concerti, sono diventato un altro uomo». Ha spento il computer, ha preso le sue cose ed è tornato a casa.
Arthur è un grande fan degli Eagles of Death Metal, la sera di venerdì 13 novembre 2015 era al Bataclan ad assistere al loro concerto. Quella notte, una serie di attacchi terroristici sferrati da un commando armato collegato allo Stato Islamico, hanno insanguinato Parigi. Al Bataclan sono morte 90 persone.
Quattro anni dopo, Arthur ha una moglie e una figlia, è presidente dell’associazione Life for Paris, che riunisce le vittime degli attentati, e ha scritto un libro con Antoine Garpon, un noto magistrato francese. Si chiama Victimes et après?, un ragionamento profondo e illuminato su che cosa voglia dire diventare una vittima.
«Io ero vivo, non avevo nessuna pallottola conficcata nel polpaccio, nemmeno un graffio. All’inizio ho creduto di essere solo un testimone di un attentato terroristico, niente di più». Ma quello che aveva vissuto lo tormentava e la sua testa non gli dava tregua. «Non riuscivo più a dormire, pensavo ossessivamente alla sera del 13 novembre, a cosa era successo, a come, alle colpe, a cosa avrei potuto fare. Ero esausto, e dopo due mesi da quella notte mi sono affidato a uno psicologo. Ho iniziato il mio processo di guarigione che non è ancora terminato», racconta.
«Non è facile. Non sei più tu ma chi sei? Anche gli altri fanno fatica a riconoscerti: è destabilizzante». Arthur, nel libro, spiega delle difficoltà che nascono quando la tua storia personale si mischia alla storia di un’intera nazione, addirittura del mondo. «Subito dopo la strage, avremmo voluto vivere il nostro dolore in silenzio, accanto alle persone che ci amano. Ma il Bataclan è una delle ferite più profonde di Francia, così le nostre vite sono diventate di dominio pubblico. Tutti avevano un’opinione di cosa avremmo dovuto fare, era come se in quella stanza fosse presente il mondo intero».
Ma la notte, l’odore della polvere da sparo e le immagini degli amici uccisi erano souvenir del terrore riservati solo ai sopravvissuti. «Quando hai gli attacchi di panico, o hai pensieri suicidi e fai fatica ad alzarti dal letto, essere assediati dalla stampa, sentirne parlare ininterrottamente in tv o sul metrò rende tutto ancora più difficile. Nonostante siamo al quarto anniversario, non c’è giorno che passi senza che qualcuno non nomini il Bataclan in un dibattito politico, o alla radio. Se ne parla per la sicurezza, per l’immigrazione, per il futuro del Paese. Va meglio, ma una volta questa parola faceva da trigger, bastava per ripiombare improvvisamente nell’angoscia. Come vittime avremmo bisogno di una pausa, siamo stanchi di essere l’argomento del giorno. È tutto pubblico, anche il nostro processo di guarigione».
«L’enfer est pavé de bonnes intentions», dice lui. È un detto francese che significa «l’inferno è pieno di buone intenzioni: so che molte persone pensano di fare del bene affrontando il discorso, ma in realtà perpetuano il nostro stato di vittima. Siamo il simbolo di un evento che ha sconvolto tutti. Ma prima siamo esseri umani alla ricerca di un po’ di pace. Credetemi, è molto facile diventare una vittima, ma è davvero complicato non esserlo più».
Ma come si fa a stare vicino a chi vive un trauma del genere? «L’unica chiave è rispettare il suo volere. Bisogna capire se la persona che abbiamo davanti ha voglia di parlarne o meno. E se decide di aprirsi con voi, ascoltate, evitate i troppi consigli. Faccio un esempio: ho incontrato i sopravvissuti della strage di Charlie Hebdo, sapevano tutti chi eravamo, ma nessuno di noi ha fatto riferimento a quegli eventi, abbiamo parlato di altro. Ci siamo rispettati».
Arthur dice che ha provato a proteggersi non condividendo precisamente quello che ha vissuto e visto al Bataclan. «Il ricordo di quella sera è sfalsato dalle mie emozioni, si sa già tutto, non c’è bisogno della mia storia. Per esempio, per molto tempo ho creduto che le luci fossero spente. Ero convinto che mentre i terroristi sparavano ci fosse buio in sala, poi ho scoperto che le luci erano accese. Il mio cervello voleva proteggermi ed evitare che io ricordassi di aver visto davvero quell’incubo».
Oggi Arthur sta molto meglio, ogni anniversario che passa è un anno più lontano dalla strage. Ha lasciato il suo vecchio lavoro, e ha aperto un’agenzia che tratta di intelligenza artificiale. «Quando finirà il processo mi sentirò finalmente una “vittima in pensione”», dice, «se c’è una cosa che ho imparato è che dobbiamo goderci ogni secondo che abbiamo disponibile. Però ammetto che appena arriva novembre, e gli alberi perdono le foglie diventando come erano quella notte, ritorno ad avere paura».
Continua ad amare la musica ed è in contatto con i ragazzi degli Eagles of Death Metal, anche se fa ancora un po’ fatica ad ascoltare le loro canzoni. Sente spesso Josh Homme dei Queens of the Stone Age: «Quella notte non c’era, ma il gruppo era anche suo e mi è stato molto vicino in questi anni». La musica l’ha aiutato a superare momenti di crisi, ma non va spesso ai concerti. «Deve essere proprio una band che mi piace. Appena entro nel locale, mi posiziono vicino all’uscita di emergenza e spesso lì ritrovo altri amici sopravvissuti alla notte del Bataclan».