La data, in effetti, era da cerchiare in rosso sul calendario già da un po’, ed è quella della Giornata della Memoria, domani. Per anni il 27 gennaio non si portava dietro grossi strascichi: certo, c’erano i negazionisti dei campi di concentramento e i nostalgici di nazismo ed estrema destra in generale a dire la loro (?), ma erano fenomeni tutto sommato marginali che – per parlare di casa nostra – ci risparmiavano un gioco a nascondino o una corsa all’ambiguità tipica, magari, del 25 aprile. Con i lager non c’è da dichiararsi antifascisti, e anzi di solito la questione delle leggi razziali è derubricata, dagli appassionati del Ventennio, come «il primo errore di Mussolini». Della serie: laviamoci la coscienza, ha fatto anche cose buone. Tutto già visto.
Quest’anno però è diverso, da noi come nel resto dell’Occidente, perché gli ultimi sviluppi del conflitto tra Israele e Palestina hanno riacceso gli animi e portato nuove critiche su Israele. Critiche che, ovviamente, sono legittime, ma che nel tutti contro tutti di questi tempi, se si tratta di dibattiti, sono state polarizzate, radicalizzate, trasformate in armi da battaglia. Il margine è ridottissimo e ovunque ci si muova si ha la sensazione di camminare sulle uova: c’è chi dice che Israele sia senza macchia, e che ogni critica nei suoi confronti nasconda una nuova forma di antisemitismo; c’è chi dice che ciò che succede a Gaza è paragonabile a un nuovo genocidio e quindi, di conseguenza, all’Olocausto; c’è chi dice di non confondere antisemitismo con antisionismo, che è un sentimento diverso e che, ecco, c’è e va rivendicato, così come ricordano come Israele sia protetto da una sorta di establishment; e poi la questione di Hamas, se quello che ha fatto sia giustificabile o meno (del tipo: no, non lo è, però…; oppure: sì, così ha firmato la giusta condanna).
Saltano gli schemi politici – estrema destra ed estrema sinistra, per dire, sono grossomodo più vicine nella difesa della Palestina, seppur con prospettive diverse, di quanto lo siano i partiti più moderati – e le voci più posate, comprese quelle critiche e interne a Israele, vengono perfino ignorate. Così come succede alle accuse delle istituzioni internazionali, tacciate di essere faziose per l’una o per l’altra parte. Per capirci su quanto sia peperino il clima, basta citare un post di qualche giorno fa dell’Anpi, nota per le sue posizioni spesso, diciamo, più a sinistra del PD, in cui definiva «un errore gravissimo mettere sullo stesso piano la Shoah e altre, pur terrificanti, vicende di oggi»; il linciaggio nei commenti parla da sé.
E quindi eccolo, questa prima Giornata della Memoria dallo scorso 7 ottobre, un momento delicato in cui come in qualsiasi modo si parla si rischia di fare danni. Il governo, nel dubbio, è entrato a gamba tesa, e il Ministro dell’Interno Piantedosi ha chiesto che i cortei a favore della Palestina in programma domani vengano rimandati. Tante organizzazioni, soprattutto studentesche ma non solo, avevano già fatto sapere di scendere in piazza. Piantedosi ha spiegato che «la commemorazione della Shoah fa parte di valori sanciti da una legge dello Stato», e che posticipare, pare a domenica, «non significherebbe negare la libertà di manifestare». Il senso, dice, è di «evitare tensioni», in una circostanza particolare in cui, se le due manifestazioni opposte avvenissero nello stesso momento, quella pro Palestina potrebbe avere dei connotati «lesivi» nei confronti d’Israele, oltre che rischiare disordini e scontri. Le misure per evitare problemi sarebbero pure dure, nel caso.
E mentre la comunità ebraica si descrive soddisfatta, la palla passa ai questori, che dovranno decidere in prima persona sulle circa dodici manifestazioni in programma. Beppe Sala ha detto che «non è semplicissimo» farlo, a testimonianza di quanto prendere posizione in merito sia pericoloso. Solo a Milano, per esempio, la manifestazione pro Palestina si svolge ogni sabato da mesi, è un caso che il prossimo corrisponde con la Giornata della Memoria; motivo per cui, tra i tanti, il segretario di Rifondazione Comunista ha definito la scelta «inaccettabile». Inutile dire che le tensioni sono cresciute anche nel resto d’Italia, con la comunità palestinese di Roma e del Lazio parla di «un atto contro la democrazia».
La sensazione è che, dove non ci avesse pensato l’opinione pubblica, ci abbia pensato il governo, a mettere in correlazione Gaza e la Shoah. E poi, come scrive Massimiliano Panarari in un intervento oggi sulla Stampa, «il divieto non è un il rimedio»: rimandare cortei è sempre triste, sostiene, specie se per la paura che ci siano disordini; alla fine, una scelta del genere è un’ammissione implicita di debolezza da parte dello Stato.