Sei un impiegato junior al Dipartimento per la Continuità (Globale) dell’Onu. Sono le 17.00 del 24 dicembre. Il tuo capo ti chiede di fare subito un salto a Pyongyang per capire perché Kim Jong-un, nome in codice Camelia Rosa, abbia spedito un messaggio urgente “accennando a un razzo disperso o a qualcosa del genere”. Lui, il tuo capo, non se ne può occupare in prima persona: deve tornare a casa perché ha promesso di preparare “un uccello farcito di uccello, ripieno di uccello” per il cenone. Ecco, se scegli di non partire e “gli spieghi dove può infilarsi il suo triplo uccello arrosto, perché i tuoi programmi natalizi non saltano per nessun motivo”, e vai quindi a pagina 26… Boom! Pagina 26 è tutta nera! “Ma cos’è successo? Purtroppo non lo saprai mai, perché tu e tutti quelli che conosci siete appena stati vaporizzati”. Per fortuna, puoi tornare da dove venivi, e cioè a pagina 1, per cambiare la risposta da dare al tuo capo. Inizia con questo bivio The Apocalypse Game. Scegli tu come far finire il mondo con Trump, Putin e Kim Jong-un, il divertente libro-game geopolitico che può nascere quando il talento per il cazzeggio di Rob Sears incontra la raffinatezza del Saggiatore, l’editore che ha appena pubblicato in italiano questo volume, che custodisce al suo interno – che meraviglia! – gli adesivi per creare «il tuo dittatore preferito».
In The Apocalypse Game appaiono anche Vladimir Putin, Donald Trump, Elon Musk e Angela Merkel. Ma è chiaro che il gioco non ci sarebbe se al centro della faccenda, come motore mobile, non ci fosse lui: Camelia Rosa. Ovvero, il Brillante Compagno Kim Jong-un, il figlio del Caro Leader Kim Jong-il, il nipote del Presidente Eterno Kim Il-sung. E se “Camelia Rosa” è un’invenzione di Rob Sears, gli altri tre incongrui sposalizi tra un aggettivo e un sostantivo sono invece denominazioni ufficialissime, benché sembrino dei versi in fuga da un haiku di Sandro Bondi, fra i quali si ricordano soprattutto A Silvio («Vita assaporata / Vita preceduta / Vita inseguita / Vita amata / Vita vitale / Vita ritrovata / Vita splendente / Vita disvelata / Vita nova») e A Rosa Bossi in Berlusconi, il carme dedicato alla mamma di Silvio («Mani dello spirito / Anima trasfusa. / Abbraccio d’amore / Madre di Dio»).
Ma non divaghiamo e torniamo al Nostro, a Kim Jong-un, Il grande successore, come lo definisce la giornalista neozelandese Anna Fifield in un altro libro appena uscito in italiano. Il grande successore è un’ottima storia dell’ascesa del leader nordcoreano, pubblicata da Blackie, un editore di provenienza spagnola, che è appena arrivato in Italia ma già ci sembra imprescindibile. Ma anche qui, in una biografia godibilissima ma seria di Kim Jong-un, ecco che – complice forse la cifra estetica di Blackie edizioni – l’illustrazione di copertina e il sottotitolo (La vera storia di Kim Jong-un, l’uomo che ci distruggerà tutti) contribuiscono subito a “delocalizzare” l’argomento del libro, suggerendo ai librai e ai bibliomani di procurarsi due copie del volume: una da collocare nello scaffale dedicato ai saggi accademici sui dittatori e un’altra da mettere nel settore dedicato alle popstar internazionali. Ed è giusto così. Perché, quando si parla di Kim Jong-un, così come quando si parlava di suo padre Kim Jong-il, si entra subito, inevitabilmente, in zona fandom.
Ma com’è successo che i tenutari di una delle più repressive, feroci, liberticide e affamatrici autocrazie del mondo si siano trasformati da almeno vent’anni in icone globali? E con “icona”, beninteso, non intendiamo “modello politico”, visto che, con buona pace della propaganda di Pyongyang, nessuno nel mondo (con l’eccezione, forse, di alcune comunità di nordcoreani in Giappone) ha mai preso sul serio il juche, cioè l’ideologia creata da Kim Il-sung, il patriarca dei Kim, shakerando una parte di marxismo-leninismo, una parte di nazionalismo coreano e sette parti di kimilsunghismo, per poi concludere il cocktail con un q.b. di confucianesimo. Con “icona” qui intendiamo proprio “immaginetta”. Una cosa da guardare. Un riferimento estetico immediatamente percepibile e capace di sollecitare altre associazioni visive. Un soggetto da t-shirt post-hipster. Un pittogramma vivente da decontestualizzare e ricontestualizzare con ogni sorta di artificio grafico tongue-in-cheek. Un cartamodello da completare con mille variazioni diverse (con gli adesivi di The Apocalypse Game, ad esempio). Una figura da colorare, su cui esercitarsi con tutta la palette dei colori fluo e/o con le edificanti pastellature da lupo-travestito-da-agnello proprie del realismo socialista di tendenza estremorientale.
Ora: la denuncia del tiranno con uso di risata – denuncia spesso fondatissima anche nei suoi risvolti più atroci e incredibili, talvolta invece deformata attraverso un macrobiettivo grandguignolesco, e in alcuni altri casi invece abbondantemente avvelenata da una propaganda contra personam – ha una tradizione antichissima. È un tipo di ritratto che compare in tutte le epoche. Ha informato alcune coeve biografie dei Cesari, zuppe di sangue e di capricci. Ha dato vita a capolavori cinematografici, come Il grande dittatore chapliniano. E, con l’attenuarsi dell’eurocentrismo, ha preso poi anche risvolti più esotici, come nel libro Pagliacci e mostri del catalano Albert Sánchez Piñol, tragicomica galleria di otto autocrati africani, che vanno dal despota d.o.c. Bokassa fino a un più imprevedibile Ras Tafari (infatti, se nell’immaginario collettivo la combo formata da Jah e da Ras Tafari presiede perlopiù all’ascendere di nuvole di ganja, spinte verso le altezze celesti da una musica in levare, nelle pagine di Pagliacci e mostri Ras Tafari veste invece i panni terrestri e non impeccabili, diciamo così, di Hailé Selassié, che per una quarantina d’anni fu negus neghesti, ovvero imperatore, dell’Etiopia).
Quando si parla della dinastia dei Kim ecco però che la satira prende una strada ultrapop che raramente è stata imboccata nel caso di altri dittatori. Prendiamo ad esempio il caso del formidabile film Team America: World Police in cui la marionetta di Kim Jong-il, animata con la tecnica supermarionation, scioglie le sue emozioni nell’indimenticabile canzone I’m So Ronery. I creatori di Team America, Trey Parker e Matt Stone, sono peraltro gli stessi di South Park. E infatti, dimostrandosi dei veri fan dei Kim riciclati in popstar, hanno “ospitato” a più riprese sia Jong-il sia il figlio Jong-un anche nella loro serie tv a disegni.
Certo, il pop ha coinvolto anche altri autocrati. Addirittura Adolf Hitler, oggetto comprensibilmente molto difficile da maneggiare, è stato a sua volta virato in pupazzo post-tutto, come dimostrano il pazzesco diorama Fucking Hell dei Chapman Brothers e Him di Maurizio Cattelan, nonché i romanzi Lui è tornato di Timur Vermes e Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler di Massimiliano Parente che, già nelle rispettive copertine prima ancora che nelle loro pagine, interpretano perfettamente la riduzione grafica del Mostro a icona infinitamente riutilizzabile. Ma qui ci sono la questione della Reductio ad Hitlerum e del “caso unico” hitleriano e quindi i giochi che si possono tessere intorno a un tabù tanto assoluto rischiano di condurre la riflessione su altri percorsi. Lasciamo quindi da parte l’austriaco coi baffetti, tanto non mancano altri esempi di disneyzzazione degli autocrati.
Ci sono stati i coloratissimi Mao pop-artistici di Andy Warhol, riprodotti fino allo sfinimento, e c’è il Mao sul logo e nel nome di uno dei mejo (e più cool) ristoranti cinesi di Milano. C’è il saluto incollalabbra tra Leonìd Brèžnev ed Erich Honecker, che è stato riproposto in tutte le declinazioni del postmoderno. Ci sono le splendide e coloratissime teste di Tito (inteso come Josip Broz) che la banca danese Bikuben produsse in forma di salvadanaio e che ora sono orgogliosamente poste in vendita nel bookshop della Kuća Cveća, il mausoleo belgradese in cui è sepolto il Maresciallo jugoslavo. C’è la la sequenza iniziale di Una pallottola spuntata, in cui l’ayatollah Khomeini rivela sotto il turbante una cresta di capelli arancioni pochi secondi dopo che la voglia sulla fronte di Mikhail Gorbaciov è stata cancellata con un abile colpo di kleenex. E c’è qualcun altro che ha addirittura interpretato in proprio un tentativo di svolta pop, come Muammar Gheddafi che, con la sua faccia stropicciata dietro gli occhiali da sole, posava spesso da Keith Richards della Tripolitania in una mattina di hangover. Ma, in tutti questi casi, si tratta di episodi più o meno isolati nella caratterizzazione complessiva del personaggio. La poppizzazione dei Kim è invece così frequente da essere diventata quasi l’unica forma per raccontare la dinastia nordcoreana che, oltretutto, guida uno dei regimi più hardcore nel catalogo dei governi autoritari: è una scelta volontaria per chi voglia parlare dei Kim in chiave umoristica ma è una scelta almeno parzialmente obbligata anche per chi, come Anna Fifield ne Il grande successore, ne voglia scrivere più seriamente.
L’esempio più efficace della serializzazione surreal-pop che ha investito la dinastia nordcoreana è Kim Jong-il looking at things (Kim Jong-il guarda le cose), lo strepitoso tumblr che l’art director portoghese João Rocha dedicò a suo tempo al Caro Leader e che poi, dopo la dipartita di Kim Jong-il e l’avvento del Grande Successore, fu replicato da altri con lo spin-off Kim Jong-un Looking at Things. E poi, appena insediato a capo della Corea del Nord, ecco che Kim Jong-un viene salutato dalla copertina di Time del 27 febbraio 2012, con la sua faccia e con quel titolo, Lil’ Kim, che attribuiva al neo-autocrate di Pyongyang quel Lil’ che sarebbe poi stato il prefisso più abusato nei nickname di varie generazioni di bad boys della trap. E poi, sempre nel 2012, ecco che il sito satirico The Onion nomina Kim Jong-un “the sexiest man alive” (questa la motivazione del “premio”, che, ahiloro, fu presa sul serio da alcuni giornali asiatici: “Con la sua bellezza devastante, il volto rotondo, il suo fascino da ragazzino, con la sua forte e solida corporatura, questo amato pyongyanghese è il sogno di ogni donna trasformato in realtà. Benedetto da un tocco di potere che stempera il suo evidente lato adorabile e coccoloso, Kim ha fatto andare in brodo di giuggiole il comitato editoriale di questo giornale con il suo impeccabile senso della moda, con il suo taglio di capelli chic e, naturalmente, con il suo famoso sorriso”).
Da lì in poi la plastificazione del terzo Kim, trasformato da uomo (e autocrate) in innocuo gadget, è stata tutta in discesa. E, a causa del confezionamento ammiccante e occhiolinesco di tutte le notizie che lo riguardano, è diventato quasi impossibile, anche per i professionisti del debunking, separare a prima vista le poche informazioni serie sul leader nordcoreano dalle mille fake news e dai milioni di meme su di lui.
Ma com’è successo tutto questo? Di sicuro, le fisionomie della casata dei Kim e gli accessori che i suoi più illustri esponenti prediligono hanno fatto buona parte del lavoro. La loro bassa statura coniugata con una complessione rotondetta che ha a che fare più con un tratto fumettistico che con una comune pinguedine, gli occhiali da vista e da sole retrò, l’hairstyling estremo, le divise post-maoiste, i gessati da Chicago anni Venti e i vestiti estivi che sarebbero stati considerati démodé anche nella Timișoara dei primi anni Ottanta congiurano, insieme con le scenografie che trasudano uno stalinismo not reloaded al retrogusto di kimchi, a una cartoonizzazione del dittatore.
Ma questo non basta a spiegare del tutto il fenomeno. Ci deve per forza essere qualche ulteriore ingrediente. Perché, tra l’altro, come è possibile che Kim Jong-il, che ha governato per 17 anni, e Kim Jong-un, che è al potere da solo 9 anni, siano diventati delle popstar e che questo invece non sia successo con il fondatore della dinastia (e della Repubblica popolare della Corea del Nord), il nonno Kim Il-sung, che impugnò come un duplice scettro la falce e il martello per quasi cinquant’anni – e che peraltro continua a governare il Paese in qualità di Presidente Eterno? La risposta risiede probabilmente nel fatto che soltanto dopo il tramonto del socialismo reale la sua estetica, a lungo vilipesa, sia nel frattempo assurta a faro estetico di portata planetaria: la grafica rivoluzionaria e le affiche della propaganda; il gigantismo degli edifici pubblici e i Plattenbauten che, con tutti i loro fratelli e cugini del mondo orientale, da Lubiana a Petropavlovsk–Kamčatskij, hanno declinato per decenni il brutalismo britannico con accenti sovietizzanti; i tentativi di design plasticoso e i prodotti di un’industria tessile eternamente wannabe; il braccio che muove il telaio e la forza che muove l’acciaio; la Ostalgie e la Jugonostalgija; gli Spomenik e la bellezza delle pensiline per aspettare l’autobus conficcate nella desolazione della tajga; la ieraticità dei monumenti e le pose dei lavoratori che si rimboccano le maniche ammirando quel sol dell’avvenire che si riflette sui loro bicipiti, ben pasciuti grazie all’ultimo piano quinquennale per la produzione cerealicola. Tutte queste cose, oltretutto arricchite da uno stimolante twist locale, ci sono anche in Corea del Nord e sono ad esempio documentate negli splendidi volumi Printed in North Korea: The Art of Everyday Life in the DPRK e Made in North Korea, editi da Phaidon.
Ma, mentre nove decimi del mondo sovietico hanno cambiato binario da una trentina di anni, mentre la Cina e il Vietnam, pur rimanenendo illuminate dalla stella rossa, sono diventati Paesi turbocapitalisti e ultraindividualisti, mentre Cuba, vabbé, è ormai una Cuba di daiquiri tracannati cantando “Comandaaaante Che Guevaaaaaara”, mentre la Bielorussia e la Transnistria sono forse troppo a portata di mano e troppo diluite dalla permeabilità con il “nostro” mondo, in Corea del Nord e soltanto in Corea del Nord sono ancora assolutamente contemporanei tutti quei paraphernalia per i quali siamo in molti in Occidente a nutrire un’inconsolabile saudade estetica, mentre sbocconcelliamo madeleine grazie a cui riassaporare quel socialismo reale che non abbiamo in realtà mai assaporato, perché ci ha per nostra fortuna risparmiati. E così, se in un museo della DDR ci facciamo un selfie di fianco a una Wartburg 353 e a un manichino vestito con la divisa dei VoPos, perché Good Bye, Lenin!, allo stesso modo vorremmo farci un selfie anche accanto a un cartonato di Kim Jong-un con gli occhiali da sole e i capelli buffi, perché Good Bye, Kim!. Ah, no, come sanno 25 milioni di nordcoreani Kim è ancora qui, altro che good bye, e allora meglio ancora, perché a noi Kim piace così, come un pupazzo superpop nel suo parco a tema. E questo è il primo elemento che spiega come la cartoonizzazione di Kim sia il suo (e il nostro) ineludibile e irreversibile destino.
Il secondo elemento ce lo suggerisce proprio Il grande successore. Scrive Anna Fifield a proposito di Kim Jong-un: “Persino il suo aspetto ridicolo era intenzionale. Mentre altri dittatori hanno cercato di nascondere la vecchiaia incipiente e quindi la loro mortalità – basti pensare a come si tingevano i capelli Saddam Hussein e Gheddafi – Kim Jong-un ha fatto esattamente l’opposto. Il giovane autocrate si trasformò nella reincarnazione del nonno. Aveva una capigliatura uscita direttamente dall’Unione Sovietica degli anni Quaranta e camminava con un bastone. Modificò la voce in un brontolio grave che ricordava quello di Kim Il-sung, acuito dalla classica raucedine di chi fuma un paio di pacchetti di sigarette al giorno. E, soprattutto, tra un’apparizione pubblica e l’altra metteva su sempre più peso. In estate indossava le camicie bianche a maniche corte usate anche dal nonno, mentre d’inverno esibiva i suoi stessi cappelli in pelliccia. Anche i suoi occhiali squadrati erano vecchio stile. Tutto il suo look era studiato per ricordare ai nordcoreani il passato glorioso di Kim Il-sung. Funzionò”.
Eccome, se funzionò. Perché proprio questo è il secondo elemento che spiega come la cartoonizzazione di Kim sia il suo (e il nostro) ineludibile e irreversibile destino: la canonizzazione di Kim come ineffabile e quasi incorporea popstar internazionale è stata volontariamente alimentata da Kim stesso. La scelta dei suoi compari, peraltro, non smentisce la teoria. In America, il suo mate è Dennis Rodman, il dio del parquet che volle rendersi cartoon. In Italia, il suo “amico mio” è Antonio Razzi, il dio del Canton Abruzzo che volle rendersi mediatore internazionale. Affinità elettive, si sarebbe detto una volta.