In questi giorni è capitato spesso di vedere immagini della polizia americana attrezzata manco fosse l’esercito: veicoli corazzati da trasporto truppe, lanciagranate, droni e fucili semiautomatici. Più che fronteggiare dei manifestanti, i poliziotti sembravano dover andare in guerra. Ma queste immagini, che forse hanno colpito il pubblico italiano, sono invece una consuetudine oltreoceano e fanno eco a quelle di sei anni fa a Ferguson, Missouri, e a molte altre ancora precedenti.
Mentre gran parte della gestione delle forze dell’ordine negli Stati Uniti è delegata alle autorità locali, l’acquisizione di equipaggiamenti militari ha origine a livello federale. Nello specifico, il programma che permette ai vari distretti di polizia di rifornirsi, spesso senza costi, direttamente dal Dipartimento della Difesa è noto come “1033 program”, e fu approvato nel 1997 sotto Bill Clinton all’interno del National Defense Authorization Act. Il programma di fatto prescrive e regola il trasferimento di tutto il materiale bellico in eccesso dalle unità di combattimento alla polizia. Questa pratica, però, ha in realtà una storia molto più lunga, che comincia negli anni ’60.
Nel 1965, un altro periodo della storia americana carico di tensione sociale e disordini civili, l’amministrazione Johnson istituì un canale di finanziamento federale per ingrandire e rafforzare i dipartimenti di polizia locali. Questa svolta, portata a termine nell’ambito della cosiddetta “guerra al crimine”, diede per prima la possibilità alle forze dell’ordine di acquisire attrezzature di tipo militare. Nello specifico, il governo affidò il compito di gestire un budget piuttosto sostanzioso alla neonata Law Enforcement Assistance Administration, un’agenzia inserita all’interno del Dipartimento della Difesa proprio a questo scopo. La prima spesa comprendeva giubbotti antiproiettile, elicotteri, carri armati, fucili, maschere antigas e veicoli corazzati a prova di mina.
Negli anni ’70 poi Richard Nixon varò la famigerata “guerra alla droga”, una campagna governativa iperaggressiva che aveva lo scopo, almeno nominale, di ripulire le strade americane dal crescente flusso di stupefacenti. La narrazione intorno all’intera operazione creò le condizioni per un’ulteriore espansione delle prerogative delle forze dell’ordine all’interno del tessuto sociale, e attraverso l’uso della parola “guerra”, come nel caso della “guerra al crimine” di Johnson, impose sin da subito un frame molto preciso: i poliziotti divennero soldati in prima linea contro la criminalità diffusa nel paese.
Nel decennio successivo la guerra alla droga salì ancora d’intensità e colpì per lo più i quartieri neri, sfruttando l’isteria collettiva intorno alla circolazione del crack e la percezione di estrema violenza legata alle sue reti di spaccio. Proprio in quegli anni il Congresso, di concerto con le autorità statali, alzò progressivamente le pene per molti reati legati all’uso e alla vendita di stupefacenti, con condanne sempre più sproporzionate che inaugurarono l’era, tutt’altro che esaurita, dell’incarcerazione di massa.
In questo clima, le elezioni del 1988 girarono quasi unicamente intorno alla sicurezza. George H. W. Bush, promuovendo misure sempre più estreme, riuscì a far passare l’idea che il candidato democratico Michael Dukakis sarebbe stato un presidente troppo morbido con i criminali. Una volta eletto, Bush diede seguito ai proclami, con provvedimenti che negli anni della sua amministrazione fecero salire ulteriormente i tassi d’incarcerazione e il livello di militarizzazione della polizia. Fu in questa fase che la sezione 1208, antenato diretto del programma 1033, venne inclusa nel budget per la difesa del 1990: la norma autorizzava il trasferimento di armi e munizioni direttamente dal Pentagono ad altre agenzie sia federali che statali, perché venissero utilizzate nell’ambito di operazioni antidroga.
In generale i repubblicani riuscirono in quel periodo a imporre in maniera sempre più pervasiva la loro retorica “tough on crime”, trascinando a destra sul tema della sicurezza anche il blocco maggioritario del partito avversario. Dato il contesto che si era venuto a creare, non deve stupire che siano stati i democratici a firmare l’espansione definitiva della sezione 1208, che venne rinominata programma 1033 nel ‘97, ma anche la riforma del sistema penale del 1994 (scritta e promossa da Joe Biden, oggi candidato alla presidenza). In entrambi i casi si tratta di provvedimenti che ancora una volta ebbero un impatto pesantissimo e sproporzionato sulla comunità afroamericana, la cui storia parallela ci mostra come la retorica sulla sicurezza, la militarizzazione della polizia e la questione razziale siano tutti temi profondamente connessi.
Durante le rivolte di Ferguson del 2014, le immagini dei poliziotti in assetto da guerra finirono sotto i riflettori generando grandi polemiche, tanto da spingere Barack Obama a emettere un ordine esecutivo che limitò di parecchio il passaggio di attrezzature dall’esercito nazionale alle forze di polizia locali. Manco a dirlo, però, nel 2017, pochi mesi dopo essere entrato in carica, Donald Trump cancellò quel provvedimento, riportando il programma 1033 al suo originario e pieno regime.
Ben oltre l’approccio generale, all’interno della normativa ci sono due clausole in particolare che finiscono per renderla ancora più pericolosa, producendo effetti profondi sul comportamento delle forze dell’ordine, come quelli che stiamo osservando proprio in questi giorni.
Per cominciare, tutti gli equipaggiamenti che non vengono utilizzati entro il primo anno dalla loro acquisizione devono essere restituiti, il che crea ovviamente un incentivo a mettere in campo mezzi eccessivi anche in circostanze che di norma non lo richiederebbero. Secondo: il Pentagono distribuisce queste attrezzature militari ai dipartimenti di polizia, ma non è tenuto a fornir loro – né richiede in forma obbligatoria – alcun tipo di formazione su come utilizzarle.
La mancanza di addestramento non è un problema solo a livello di preparazione logistica, ma anche, forse soprattutto, psicologica. La continua esposizione a questo genere di equipaggiamenti, e di pari passo a un certo tipo di retorica politica, ha portato gli agenti ad autorappresentarsi, secondo la definizione del giornalista americano Radley Balko, come poliziotti guerrieri. Un approccio al lavoro che di certo non favorisce la buona gestione di operazioni già di per sé cariche di tensione.
Negli ultimi giorni, in seguito all’assassinio di George Floyd e al comportamento delle forze dell’ordine durante le conseguenti proteste divampate in tutto il paese, sono arrivati parecchi appelli in direzione di una riforma radicale dei dipartimenti di polizia. Alcune amministrazioni locali sembrano aver reagito con la dovuta prontezza, presentando progetti più o meno capillari di ristrutturazione. Ma come per la questione razziale, il problema qui sembra anche di natura culturale, un livello che notoriamente reagisce agli stimoli con tempi molto più lenti rispetto a quelli strettamente legislativi.