Sono entrato in una palestra nella cittadina di Sumter, in South Carolina, per capire veramente chi fosse Joe Biden. Era circa un anno fa e lui era solo un candidato, un ex vicepresidente, un uomo che aveva già fallito due volte la corsa alla primarie del Partito democratico e che, al tramonto della sua carriera, stava facendo un ultimo tentativo.
L’aria era stantia e l’atmosfera funerea. Il numero dei giornalisti era quasi pari a quello dei partecipanti. Quando avevo intervistato quei pochi cittadini del South Carolina che erano venuti a sentir parlare Joe Biden, mi avevano detto che stavano supportando proprio lui nell’affollato campo delle primarie democratiche perché avrebbe riportato “un senso di normalità” e avrebbe “ottenuto qualcosa in Senato”. Non c’era passione dietro queste dichiarazioni, ma piuttosto un freddo pragmatismo consapevole di dove si trovava il Paese in quel momento e di cosa c’era in ballo in quelle elezioni. “La nostra democrazia è molto fragile”, mi aveva detto un certo Leo Frazier.
Il video introduttivo della campagna di Joe Biden non era partito per problemi tecnici, così lui era arrivato senza presentazione. “Be’ non sarò quello del video, ma vado bene anch’io”, aveva esordito. E poi aveva cominciato cocn il suo discorso, lo stesso discorso che ha pronunciato ancora e ancora, dal momento in cui ha cominciato a fare campagna elettorale al momento delle elezioni.
Questa è una battaglia per l’anima del Paese…
Ho l’esperienza necessaria…
Io e Barack…
Qualche settimana dopo, la pandemia da coronavirus avrebbe fermato il Paese. Io avevo ascoltato Biden mentre si scagliava contro il presidente per il modo pericoloso in cui continuava a negare la gravità del virus, facendo anche una battuta: “Il virus non è impressionato dai suoi tweet”. Qualcuno aveva riso. Qualcuno era imbarazzato.
In una primaria con almeno una decina di candidati più giovani e brillanti di lui, Biden sembrava un relitto di un’era passata, un anacronismo terribilmente fuori sincrono con la realtà del Partito Democratico nel 2020. Joe Biden: il tizio che una volta aveva parlato bene dei segregazionisti? Joe Biden: il tizio che una volta aveva sostenuto la segregazione nelle scuole? Che possibilità aveva una cariatide come Joe Biden in mezzo a una competizione così dura? Come aveva scritto un commentatore polito nel 2019, quando sembrava impossibile che Biden vincesse la nomination: “Guardare Biden è come guardare un rodeo. Ci vai perché dentro di te sai che c’è la remota possibilità di vedere qualcuno morire”.
E invece ieri pomeriggio, Joe Biden si è avvicinato al microfono per pronunciare il suo primo discorso come 46esimo presidente degli Stati Uniti d’America. “Questo è il giorno dell’America,” ha cominciato, “questo è il giorno della democrazia”.
L’ha fatto dal Campidoglio, nello stesso punto dove solo due settimane prima una folla di fanatici pro-Trump, teorici del complotto e estremisti di destra ha attaccato la polizia riuscendo a sfondarne i cordoni e ad entrare nel Campidoglio portandovi dentro bandiere confederate, armi, vestiti che dicevano “Camp Auschwitz” e bandiere di QAnon.
Quando li ascoltiamo pronunciare un discorso importante – ad esempio dopo uan tragedia nazionale o la morte di una figura importante per il Paese – ci chiediamo dei nostri leader eletti se sono stati all’altezza dell’occasione. Sono riusciti ad esprimere il dolore e la rabbia del Paese? Sono riusciti a fermare il momento e a situarlo nel posto che gli spetta nel lungo arco della storia?
Ma ciò che mi ha colpito di più del discorso inaugurale di Biden è stato quanto si sia rifatto ai temi e alle idee che hanno definito la sua campagna elettorale. Abbiamo sentito il suo ottimismo – la storia americana è una storia “di speranza, non di paura, di unità, non di divisioni, di luce, non di buio. Una storia di decenza e dignità, di amore e di cura, di grandezza e bontà”. Abbiamo sentito i suoi appelli all’unità di fronte alle divisioni che minacciano di spezzare oggi il Paese, la sua affermazione che l’unità è ancora importante e che con l’unità “possiamo fare grandi cose, cose importanti”.
Mentre così tanti americani vedono le persone di un’altra fede politica come nemici, come subumani, Biden da candidato ha fatto campagna predicando la virtù della tolleranza, del bene comune, dei principii condividi. Biden da presidente ha ribadito questo messaggio, chiedendo la fine di “questa guerra incivile che mette i rossi contro i blu, gli abitanti delle campagne contro quelli delle città, i conservatori verso i liberali”. E ha proseguito, “Possiamo farlo se apriamo le nostre anime invece di indurire i nostri cuori, se mostriamo un po’ di tolleranza e di umiltà, se ci mostriamo disponibili a metterci nei panni degli altri”.
E ho realizzato: chiedersi se Joe Biden sia stato all’altezza del momento vuol dire mancare il punto. Il momento è stato all’altezza di Joe Biden.
In passato sembrava strano sentire Biden evocare i fatti di Charlottesville, in Virginia, come il punto di svolta in cui ha deciso di partecipare alle primarie per la terza volta. Che legame aveva lui con Charlottesville? Perché quel terribile esempio di rabbia e di odio sarebbe diverso dai tanti altri incidenti violenti causati dal suprematismo bianco? Ma oggi sappiamo che Charlottesville è stato il preludio di una malattia che ha colpito questo Paese senza che nessuno provasse a curarla. Si può tracciare una linea chiara che va da Charlottesville all’insurrezione del 6 gennaio al Campidoglio.
Biden l’aveva già capito. E lo capisce ora quando dichiara, come ha fatto nel suo primo discorso, che si impegnerà ad affrontare e a sconfiggere “l’estremismo politico, il suprematismo bianco, il terrorismo interno”.
In passato, Biden sembrava vecchio quadno giurava, più e più volte, che avrebbe “ripristinato l’anima dell’America”. In che modo esattamente pensava di farlo? E cosa vuol dire “l’anima” dell’America? Eppure oggi, dopo quattro anni di un presidente che ha cercato di piegare la relatà al suo volere e che ha fatto a pezzi lo stato di diritto, dopo un’elezione che ha visto la democrazia spinta fino al suo limite più estremo e ha rivelato fin dove certi membri del Partito repubblicano sono disposti ad arrivare pur di mantenersi al potere, è difficile affermare che questo Paese non ha un forte bisogno di tranquillità, pace, restaurazione.
Biden ha visto tutto questo quando gli altri non l’avevano ancora visto, quando gli altri lo prendevano in giro per averl visto. E sa benissimo, come ha detto nel suo primo discorso, che perché questa restaurazione sia possibile ci vorranno più di quattro anni.
Ha visto chiaramente lo stato in cui si trovava questo Paese. Ha visto chiaramente dove si trovava e dove stava andando a finire. Non poteva prevedere la pandemia da coronavirus che ha ridefinito la vita negli Stati Uniti e nel mondo nell’ultimo anno, certo, ma ci aveva comunque avvertiti, nell’ottobre 2019, che gli Stati Uniti non erano pronti ad affrontare una pandemia. Ci aveva avvertiti che Trump avrebbe cercato di sovvertire il risultato delle elezioni se le avesse perse. Ci aveva avvertito, già nell’agosto 2020, che la retorica di Trump avrebbe alimentato il caos e fomentato la violenza.
Biden è stato definito in molti modi – e “un visionario” non è tra questi. Ci sono buone ragioni: non è mai stato un pensatore innovativo, qualcuon che vede il prossim futuro. È un uomo delle istituzioni, una creatura del Senato e dell’establishment del Partito democratico. Le sue forze sono il suo pathos, la sua familiarità con il dolore e l’empatia, la sua abilità di cadere e rialzarsi sempre. Forse sono state queste qualità a renderlo l’uomo giusto per questo momento della storia americana carico di distopia e di speranza. O forse, al tramonto della sua carriera e della sua vita, l’esperienza politica gli ha finalmente permesso di vedere meglio di chiunque altro dove stava andando questo Paese e di cosa aveva bisogno.
Ma i discorsi inaugurali sono solo parole, e le parole non bastano: contano le azioni e i risultati. Barack Obama diceva a tutti che avrebbe chiuso Guantanamo o che avrebbe posto fine alla guerra in Iraq, ma nessuna delle due cose è successa. Trump ha insistito fino alla fine sul fatto che avrebbe costretto il Messico a pagare per il suo mitologico muro sul confine, e neanche questo è successo. E Biden, per quanto si sia dimostrato in grado di vedere lontano, dovrà sforzarsi al massimo – lui, l’accomodante democratico che conosciamo – per trasformare quello che ha visto in un vero progresso.
Eredita un insieme di crisi come nessun altro presidente nell’era moderna, fatta eccezione per Franklin Delano Roosevelt. Una pandemia fuori controllo che ha ucciso 400mila americani, con un Undici Settembre ogni giorno. Un cataclisma ecconomico che ha esacerbato la differenza tra i grandi ricchi e il resto dei cittadini a un livello da Rivoluzione francese. Un Paese diviso che crede a due diverse realtà. Una crisi epistemologica in cui i fatti più basilari vengono messi in dubbio, la sicenza è sospetta, “esperto” è un marchio d’infamia.
A giudicare dal suo primo discorso, Biden ha chiaro quali sono le forze che dovrà affrontare. “C’è la verità e ci sono le menzogne”, ha detto. “Menzogne dette per potere e per profitto. E ciascuno di noi ha il dovere e la responsabilità – come cittadino, come americano e specialmente come leader, soprattutto come leader, leader che ha giurato di onorare la nostra Costituzione e di proteggere la nostra nazione – di difendere la verità e sconfiggere le bugie”. Nel suo discorso non c’erano le generalizzazioni così comuni tra i politici di oggi. E non è stato un discorso “alla Obama”, una minestra riscaldata. Le parole di Biden hanno lasciato pochi dubbi che la diagnosi e le prescrizioni sul futuro del Paese erano suoi e solo suoi.
Questo articolo è apparso originariamente su Rolling Stone US