La Striscia di Gaza è sotto attacco da parte di Israele. Lo sappiamo tutti, e quelli di noi che hanno seguito la vicenda dall’inizio sanno anche che la miccia che ha fatto esplodere la violenza è stata prima l’espulsione di alcune famiglie palestinesi dal quartiere di Sheik Jarrah, a Gerusalemme Est, e poi l’irruzione della polizia israeliana nella moschea di al-Aqsa con lacrimogeni e granate stordenti durante la preghiera. Chi poi è particolarmente informato sa anche che ciò che sta avvenendo oggi è solo l’ultimo capitolo di una vicenda che va avanti almeno dalla fondazione di Israele nel 1948, sa che cos’è il sionismo, cos’è l’accordo Sykes-Picot del 1916, chi era Arafat, e via dicendo.
Il punto è che la questione palestinese è notoriamente uno degli argomenti politici più complessi – se non il più complesso – in assoluto. Per parlarne con cognizione di causa occorre studiare oltre 70 anni di storia, diverse guerre, padroneggiare questioni parallele ma collegate come, ad esempio, i rapporti tra Stati Uniti, Israele e Iran e il nazionalismo arabo. E come se non bastasse si tratta di conoscenze che non ci arrivano dalla scuola dell’obbligo, dove il programma di Storia arriva se va bene a malapena alla Guerra fredda e con un sacco di semplificazioni. Per non parlare dei media generalisti, che non aiutano affatto, per usare un eufemismo.
A cercare di colmare queste inevitaibili lacune ultimamente – l’esplosione si è avuta con l’ondata di attivismo e proteste #BlackLivesMatter scatenata negli Stati Uniti dall’omicidio di George Floyd – ci stanno pensando le infografiche su Instagram. Carine nelle loro grafiche fatte con Canva e la loro estetica presa in prestito ai brand, veloci da leggere e colme di soluzioni immediate: seguire questo o quell’attivista, firmare una petizione, condividere, scendere in piazza. Le infografiche sfruttano lo strumento del carosello, che permette di postare un massimo di 10 fotografie contemporaneamente, per parlare un po’ di qualsiasi cosa: del problema dei femminicidi in Turchia e della crisi in Libano, di salute mentale e della plastica che sta soffocando gli oceani, di catcalling e di razzismo sistemico. E appunto, in questi giorni, della questione palestinese.
Uno dei post più condivisi delle ultime settimane, ripreso dal noto account Diet Prada, mostra due donne sedute sedute per terra che bevono caffè e parlano di Israele e Palestina. “Ma israeliani e palestinesi non stanno soltanto litigando sulla religione?”, chiede una. “Non stanno litigando. Gli israeliani sono gli oppressori, i palestinesi sono gli oppressi, e la situazione ha a che fare con tutto tranne che con la religione”, risponde l’altra.
Al tema hanno dedicato spazio anche account nati appositamente per spiegare in 10 semplici slide color pastello qualsiasi tema d’attualità, come l’americana @soyouwanttotalkabout, che ha dedicato un post allo sfratto di Sheik Jarrah e un altro a cosa si può fare per aiutare concretamente i palestinesi. In Italia invece sono girati molto i post, meno incentrati sulla classica estetica da Instagram di molti altri, dell’account dei Giovani Palestinesi, che hanno chiesto tra le altre cose di cambiare l’immagine profilo di Instagram in un cerchio bordeaux per ottenere maggiore attenzione per quanto sta accadendo in Palestina. Uno dei loro post, che era stato condiviso anche da celebrità come il rapper Ghali, è anche stato rimosso da Instagram.
Le ragioni per cui queste infografiche su Instagram funzionano molto bene è semplice: adattandosi all’estetica ripulita per cui è famosa la piattaforma e riassumendo in poche parole anche le questioni più complesse, vengono incontro alla soglia dell’attenzione piuttosto bassa che si adotta quando si sta scrollando tra una serie infinita di selfie, meme e foto di viaggio. In più, rispondono alle esigenze di un numero crescente di persone di informarsi sui social: secondo il Digital News Report di Reuters, nel 2020 il 17% degli italiani si è informato su Instagram – nutrendo il successo di media company come Torcha o Will, ma anche di giornali più tradizionali che hanno cominciato a usare Instagram in modo più intelligente solo di recente.
Per gli attivisti, le infografiche hanno moltissimi vantaggi: permettono di raggiungere utenti che altrimenti non si interesserebbero a un certo tema, e forniscono una piattaforma a voci che raramente vengono interpellate dal giornalismo mainstream. La speranza è quella di rendere l’attivismo più accessibile, dando a persone altrimenti poco politicizzate qualche strumento in più per contribuire a movimenti di cui condividono il messaggio e ispirando la gente ad attivarsi anche offline, scendendo in piazza o organizzandosi. Queste informazioni in pillole sono utili anche per chi non ha i mezzi – economici o in termini di tempo – per approfondire ulteriormente questioni che pur stanno loro a cuore e per raggiungere le persone con posizioni più radicali rispetto a quelle proposte dalla maggior parte dei media.
Studi svolti negli ultimi dieci anni mostrano che, come tattica, è piuttosto utile per diffondere idee poco conosciute e offrire visioni alternative: come spiega il professor Deen Freelon, “ha un effetto importante perché offre ai movimenti un accesso alternativo al pubblico”. Questo è innegabilmente vero per la lotta dei palestinesi, che in questi giorni stanno riuscendo a far riflettere su colonizzazione e responsabilità occidentali anche chi si era fermato finora ad analisi molto più moderate.
Esiste però un rovescio della medaglia: a creare molte di queste infografiche sono utenti qualunque, o profili specializzati nel semplificare all’osso le questioni senza essere però spesso toccati direttamente dal problema né esperti. Come aveva spiegato un anno fa, parlando del boom di post sul razzismo sistemico negli Stati Uniti, la sociologa Eve Ewing, “grafiche come queste possono essere un utile strumento di insegnamento, ma alcuni dei post che vogliono spiegare la giustizia razziale e diventano virali semplificano grossolanamente ed eccessivamente idee complesse in modi dannosi o fuorvianti, o contengono fatti completamente errati. Non attribuiscono i dati a nessuna persona o organizzazione in modo trasparente, rendendo impossibile individuare chi ha la responsabilità per quegli errori. E si basano sul lavoro di accademici e attivisti che non vengono citati”.
A questo si aggiunge una delle critiche più frequenti: ovvero che creare o condividere qualche infografica facile facile sul problema del momento aiuti alcune persone a sentirsi a posto con la coscienza senza dover fare la fatica di impegnarsi per continuare ad informarsi e a mettere pressione sulle istituzioni affinché qualcosa cambi davvero. Che chi li legge creda, erroneamente, di essere in possesso di tutte le informazioni necessarie a farsi un’idea completa sull’argomento. O, peggio, che alcuni (celebrità e brand in primis) lo facciano per capitalizzare sul dolore altrui, guadagnando follower e credibilità.
È il cosiddett slacktivism (attivismo da divano) o attivismo performativo, cioè “quel fenomeno sociale in cui le persone si sentono obbligate a condividere contenuti sulla giustizia sociale per mantenere l’apparenza della propria presunta alleanza verso comunità emarginate, anche se in realtà lo scopo della condivisione è egoistico”.
In alcuni casi clamorosi, a guidare la creazione di questi post è qualcosa di ancora più sgradevole: nel 2019, per esempio, erano comparse decine di account fasulli che promettevano di donare cibo e soldi agli abitanti del Sudan in cambio di follow, like e repost – contribuendo a distrarre gli utenti dagli sforzi delle vere organizzazioni umanitarie e corrodendo la loro reputazione. Non è il caso, palesemente, degli account che in questi giorni stanno informando sulla causa palestinese, ma è un utile promemoria su come anche le migliori intenzioni possono essere distorte.
Anche per chi ha la migliore delle intenzioni, rimane una domanda: l’estetica innocua tipica di Instagram, identica per la pubblicità e per le infografiche che spiegano la morte ingiusta di centinaia di civili, sono davvero il modo più rispettoso per condividere la preoccupazione per problemi che con quell’estetica non hanno nulla a che spartire, come la questione palestinese o la violenza della polizia? Non c’è davvero un modo meno semplice e carino, ma più fedele alla complessità dei temi in questione, per passare questi messaggi? La risposta che ci diamo potrebbe dirci qualcosa di scomodo sulla nostra capacità di empatizzare con il prossimo senza un messaggio ben confezionato, espresso preferibilmente con poche parole e tanti bei colori.