C’è un po’ di Civil War – il blockbuster, appena uscito, che racconta degli Stati Uniti sull’orlo della crisi di nervi e della guerra civile, dopo l’assalto a Capitol Hill e in vista della possibile rielezione di Trump – e un po’ di Sessantotto, nelle proteste degli studenti che da una settimana scuotono prima di tutto le grandi e costose università private americane.
A semplificare con uno schema, si potrebbe dire che una parte ci sono i giovani, che fanno i giovani e chiedono il cessate il fuoco su Gaza, con manifestazioni di stampo pacifista, anche se i toni e i contenuti non sono sempre omogenei; e dall’altra gli adulti, in una dicotomia anni sessanta in cui indossano cravatte, seguono ragioni diverse da quelle dei ragazzi, non ci sentono, e nel dubbio il dialogo è impossibile.
Il cortocircuito è evidente anche dall’esito delle votazioni di stanotte, in cui il Senato ha approvato «una legge fondamentale» (parola di Biden) da quasi cento miliardi di dollari, per armare Ucraina, Israele e in piccola parte Taiwan. Per ora, tra tutte, a fare più rumore sono le armi a Netanyahu, per le quali – soprattutto alla Camera, pochi giorni fa – è stato decisivo il sì dei democratici, là dove i repubblicani spingono per una sorta di disimpegno del paese sui vari fronti internazionali (una forma, se vogliamo, di sovranismo all’americana). Insomma, c’è sinistra e sinistra: c’è la sinistra dei grandi, che continua a sostenere Israele per una questione di schieramenti, alleanze ed equilibri geopolitici (e poi: le armi sono sempre un business), pur condannando in parte la reazione eccessiva sui civili a Gaza e voler «rendere il mondo più sicuro» (sempre Biden) concentrandosi piuttosto sul solo Hamas; e la sinistra degli studenti, che ha tutt’altre prospettive e che però, chiaramente, non si rivede neanche nei repubblicani.
Ma è davvero così? E soprattutto: le centinaia di arresti che stiamo vedendo in questi giorni non sono un po’ una reazione esagerata a delle semplici manifestazioni? Da una settimana, infatti, migliaia di ragazzi stanno bloccando in maniera pacifica le attività delle varie Columbia, Harvard e Yale, ma anche del Mit di Boston e dell’Università del Michigan, dopo le richieste di boicottaggio a Israele dei mesi scorsi. Il punto nevralgico è la Columbia, dove pochi giorni fa in in centinaia si erano accampati, invocando «solidarietà per Gaza» finché la rettrice non ha chiesto l’intervento delle forze dell’ordine, che non entravano nella struttura dal 1968 e che hanno fatto decine di arresti. E lo stesso, tra gli altri, è successo a Yale. Le accuse sono le stesse: impedire il regolare svolgimento delle lezioni – e infatti la Columbia ha spostato le lezioni online, per disincentivare sabotaggi – e soprattutto «alimentare un clima d’odio», nel segno «dell’antisemitismo». Un tema su cui, di nuovo, Biden domenica si era detto «preoccupato», dando appoggio agli interventi delle forze dell’ordine.
Chiaramente ci sono da fare delle distinzioni. L’antisemitismo esiste, così com’è documentato che una minoranza di studenti sia a favore di Hamas e della negazione, anche con la violenza, della legittimità di Israele. Ma se da una parte, come ammettono alcuni rettori, il confronto, anche scomodo, è alla base del percorso di formazione universitario, la maggior parte dei manifestanti è comunque convintamente pacifista, e vuole solo la fine dei bombardamenti sui civili. È di troppo anche questo? C’è un modo giusto, allora, per manifestare dissenso dalla linea di Biden senza essere arrestati? Chissà.
Una delle ragioni pratiche su cui stanno spingendo le università, legata proprio all’antisemitismo, è la necessità di proteggere gli studenti ebrei da eventuali discriminazioni che potrebbero nascere da queste manifestazioni. La stessa rettrice della Columbia è stata accusata in maniera bipartisan di non fare abbastanza per tutelarli – e da lì si è messa in moto per gli arresti. È un problema concreto, ma la realtà racconta anche di ragazzi ebrei che si sono accampati per manifestare vicinanza a Gaza – chiaro, non hanno pretesa di esaustività, ma sono comunque indicativi. Il rischio è che con il tema dell’antisemitismo si silenzi ogni sorta di critica a Israele, e non sarebbe una novità.
E qui si torna alla domanda iniziale: non sarà un po’ troppo? La verità è che dietro una reazione così spropositata delle forze dell’ordine – centinaia arresti, cioè, per studenti che manifestano in maniera pacifica nei campus, salvo pochissimi scontri con le autorità, ma sempre senza scene di guerriglia – c’è altro. C’è la pressione della politica statunitense, schierata con Israele in maniera unanime.
E ci sono, soprattutto, degli interessi economici. Un clima teso come questo, infatti, ha già portato molti dei grandi finanziatori delle università private – che vivono e costruiscono il loro prestigio prima di tutto sui loro fondi e investimenti, quasi in termini proprio di sponsorship – a storcere il naso, e a compiere dei passi indietro. Minacciano, insomma, di non mandare più soldi alle struttura. Dalla loro prospettiva, una situazione del genere è un danno d’immagine e di ordine pubblico che non vogliono permettersi: e pace che nelle università le proteste degli studenti si siano sempre viste, e spesso abbiano rappresentato degli incubatori per i cambiamenti sociali che sarebbero arrivati di lì a poco.