Ma le leggi di Renzi sul lavoro, una mezza rivoluzione decisa con fragorosa eco mediatica, hanno funzionato o no? Quelle leggi, ancora più della riforma costituzionale, sono state il cuore della triennale esperienza del governo Renzi, il banco di prova su cui misurarne le capacità. Si proponevano infatti di affrontare i problemi materiali e quotidiani che per la maggioranza delle persone sono da anni i più urgenti: la disoccupazione e il precariato. In particolare, l’obiettivo conclamato di quel pacchetto di misure denominato all’americana Jobs Act era fronteggiare la situazione difficilissima dei giovani, i più penalizzati dalla mancanza di lavoro o dal precariato, con conseguenze devastanti in termini non solo di reddito ma anche, e forse soprattutto, di possibilità di strutturare un progetto di vita autonomo.
La domanda sui risultati del Jobs Act, dopo anni di sperimentazione, è obbligatoria. Ma la risposta non è facile. A leggere i titoloni dei giornali sembra di trovarsi sulle montagne russe: un giorno ne decretano il fallimento, quello successivo ne parlano come di un sostanziale successo. La schizofrenia dei media è facilmente spiegabile. Di solito gli articoli escono in occasione della pubblicazione dei dati ufficiali, che però arrivano da fonti diverse che usano metodi di lavorazione dei dati differenti, con risultati di conseguenza altalenanti.
Inoltre gli stessi dati, per dire qualcosa di significativo, devono essere soggetti a interpretazioni e comparazioni, il che lascia un ampio margine di discrezionalità a chi commenta. Tanto per fare un esempio: un lieve aumento dell’occupazione è senz’altro un risultato positivo se lo si paragona alle statistiche precedenti. Se però risulta molto inferiore a quello degli altri paesi comparabili si rivela invece negativo. Significa infatti che il miglioramento è conseguenza di una positiva congiuntura economica internazionale, che però l’Italia non riesce a sfruttare come dovrebbe e potrebbe.
Di certo però il governo è convinto che il verdetto dell’opinione pubblica non sia positivo. In caso contrario non avrebbe deciso di cancellare completamente i voucher pur di evitare un referendum che avrebbe riguardato concretamente solo l’abolizione dei buoni lavoro, ma sarebbe suonato comunque come pronunciamento sull’intero complesso del Jobs Act.
Sul fallimento dei voucher in sé, in realtà, nessuno avanza dubbi: lo denunciano i dati senza possibilità di appello. Introdotti nel 2003 dal governo Berlusconi con la legge Biagi, i buoni lavoro che sostituiscono il pagamento diretto avrebbero dovuto essere limitati a lavori soprattutto casalinghi, come badanti o colf, e assolutamente occasionali. Lo scopo era fronteggiare il dilagare del lavoro nero in quei settori. Tutti i governi successivi ne avevano però progressivamente allargato la possibilità di utilizzo. Il Jobs Act, infine, aveva portato a 7mila euro l’anno la possibilità di erogare voucher per ogni singolo soggetto e ne aveva consentito l’utilizzo anche nei settori dell’industria e dell’artigianato, i soli a esserne ancora esclusi.
Il risultato è stata una impennata nell’uso dei buoni di dimensioni mostruose, pari secondo alcuni istituti di ricerca al 25mila%. Negli ultimi anni, i voucher sono passati da circa mezzo milione l’anno a oltre 160 milioni nel 2016. Una simile alluvione ha finito per rendere inutile anche la tracciabilità dei buoni, istituita dal governo Renzi. I voucher, oltre che strumento di diffusione ulteriore del precariato, hanno finito per agevolare anche l’evasione e l’elusione fiscale. Dopo la decisione di abrogarli, potranno ancora essere usati per tutto l’anno in corso. Prima del 2018, però, dovrebbe essere varata una nuova legge, e solo a quel punto si potrà dire con certezza se il sistema è stato davvero superato o solo aggirato.
Sulla necessità di intervenire sui voucher, denunciandone l’abuso, concordavano tutti, inclusi gli stessi ministri che ne avevano varato l’uso ampliato. Ma qual è la situazione per quanto riguarda le altre voci del Jobs Act? La principale misura di lotta al precariato era l’istituzione di massicce agevolazioni fiscali, per tre anni e a scalare di anno in anno sino ad esaurimento, per le aziende che assumevano a tempo indeterminato. Contestualmente però veniva abolito il famoso art. 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che vietava il licenziamento senza giusta causa per le aziende con più di 15 dipendenti. In questo modo diventava possibile assumere in modo da incassare gli incentivi, salvo poi licenziare cavandosela con una multa.
Inoltre il sistema permetteva un altro “trucco”: le aziende potevano licenziare i propri dipendenti salvo poi riassumerli, dopo aver cambiato nome, in modo da guadagnarsi gli incentivi dando in cambio il meno possibile. Privilegiava in ogni caso i lavoratori ultracinquantenni, assunti più volentieri sia perché già esperti sia perché più vicini alla pensione.
Il risultato è stato che nel primo anno, il 2015, gli assunti a tempo indeterminato sono stati 934mila in più rispetto all’anno precedente, ma nel 2016, con incentivi diminuiti, erano già scesi del 91%. Sul fronte opposto, quello dei contratti precari, il trend è speculare. Nel 2015 erano stati 253mila in meno rispetto all’anno precedente, ma nel 2016 sono saliti di nuovo del 187%. Nel complesso rispetto al 2014, l’anno in cui sono state varate le leggi, i contratti precari invece di diminuire sono oggi oltre 400mila in più.
Per i giovani la situazione è rimasta particolarmente grave. La sola fascia la cui situazione sia migliorata grazie al Jobs Act è infatti quella che va dai 50 ai 64 anni. Nel 2007, ultimo anno prima della crisi, era occupato il 24,2% dei giovani tra i 15 e i 24 anni, percentuale scesa nel 2016 al 16,3%. Identica tendenza per la fascia tra i 25 e i 34 anni, passata dal 71% di occupati all’attuale 60,5%. Trend opposto per gli ultracinquantenni, in cui la percentuale di occupati, negli stessi anni, è cresciuta: dal 46,8% del 2007 al 58,5% di oggi.
Per i giovani le leggi sul lavoro varate tre anni fa hanno peggiorato una situazione già grave, anche perché si sono sommate agli effetti della riforma Fornero delle pensioni che ha rinviato di anni l’età pensionabile. Secondo l’Istat su un totale di 293mila nuovi occupati, 217mila sono tra i 50 e i 64 anni, 49mila tra i 35 e i 50 anni e appena 27mila tra i 15 e 34 anni. Se si considera che di solito nel totale degli occupati viene considerato anche chi ha lavori molto saltuari, di solito proprio i più giovani, è difficile non concludere che il Jobs Act non solo non ha raggiunto l’obiettivo di aiutare i giovani contrastando il precariato ma li ha in realtà ulteriormente e severamente penalizzati.