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Cos’è il razzismo ambientale, e perché le donne ne sono le prime vittime

La quantità di rifiuti continua ad aumentare esponenzialmente in tutto il mondo, questi rifiuti finiscono tutti nei Paesi più poveri e raccoglierli tocca alle donne , per pochi soldi e con grandi rischi per la salute

Jan Hetfleisch/Getty Images

Il mercato dei rifiuti in plastica affonda le radici nella disuguaglianza. E, a farne le spese, sono soprattutto le persone più povere, in particolare le donne e le ragazze.

Fra mascherine usa e getta, guanti in plastica e dispositivi monouso, la pandemia ha dato il colpo di grazia. La quantità di rifiuti continua ad aumentare esponenzialmente in tutto il mondo. Secondo la Commissione Europea, circa l’80% dei rifiuti che inquinano i mari sono costituiti da plastica, un dato che sale al 95% secondo il WWF. Ma se i danni all’ecosistema marino sono conosciuti da tutti, lo è meno l’effetto che hanno sulla terraferma (un terzo di tutti i rifiuti di plastica finisce nel suolo o nelle acque dolci) e sulle popolazioni.

Tre anni fa, la Cina ha formalizzato il rifiuto di accettare altri rifiuti in plastica, e l’esportazione di spazzatura si è orientata quasi tutta verso l’Africa, vittima di questa nuova forma di “razzismo ambientale”. In alcune aree, ogni giorno vengono gettati circa 411 milioni di mascherine usate. Il problema dello smaltimento, quindi, oggi, grava sulle spalle di una minoranza di Paesi: quelli in via di sviluppo.

Partiamo dall’inizio. È facile che i Paesi più poveri accettino i rifiuti in plastica dagli Stati sviluppati, perché si tratta di una potenziale fonte di reddito per popolazioni che vivono al di sotto della soglia di povertà. Il risultato è che Paesi come Ghana, Uganda, Tanzania, Etiopia, Senegal e Kenya, oggi, sono sommersi dalla plastica. 

I compensi pagati ai raccoglitori di rifiuti – che più spesso sono donne – sono davvero miseri. L’altro problema è che quei rifiuti, anziché riciclati, finiscono spesso per essere bruciati: secondo una ricerca del 2019, ogni secondo viene bruciato l’equivalente di un autobus a due piani pieno di plastica. E dalla combustione delle materie plastiche vengono emesse sostanze chimiche tossiche, che causano aborti spontanei e tumori. Inoltre, i rifiuti in discarica possono anche contenere materiali pericolosi, come vetri rotti e siringhe, che veicolano malattie infettive. 

Sono più spesso le donne a raccogliere – senza regole né tutele – le plastiche nelle periferie delle città, dove i tassi di criminalità sono più alti. “La maggior parte, tuttavia, non ha scelta: deve rischiare la propria sicurezza per guadagnarsi da vivere e provvedere alle famiglie”, spiega a The Conversation Kutoma Wakunuma, professore associato di Sistemi Informativi all’Università De Montfort. “In tutta l’Africa, a 3 milioni di ragazze in più rispetto ai ragazzi tra i 6 e gli 11 anni non sarà offerta l’opportunità di frequentare la scuola. Le conseguenze si proiettano nel loro futuro: è molto meno probabile che le donne trovino, poi, lavori ben pagati; molte sono costrette a ricorrere a lavori pericolosi e sottopagati”. Come, appunto, la raccolta dei rifiuti.

L’accumulo di plastica nelle zone più povere può anche danneggiare i sistemi di drenaggio dell’acqua, favorendo lo sviluppo di colonie di batteri pericolosi. In Zambia, ad esempio, molte epidemie di colera sono state provocate dallo scarso drenaggio, aggravato dal fatto che i sistemi erano ostruiti dalla plastica.

“È imperativo trovare modi per migliorare la situazione delle donne nei Paesi in via di sviluppo, se vogliamo realizzare un mondo veramente più verde, più giusto e più equo”, aggiunge Wakunuma. “Alcuni passi da considerare includono una legislazione più severa sullo smaltimento della plastica, l’aumento dell’istruzione delle donne e il coinvolgimento femminile nei processi decisionali sulla gestione dei rifiuti di plastica”. 

Il cambiamento passa anche attraverso compensi più dignitosi. “Se la raccolta dei rifiuti di plastica diventasse meglio pagata, non solo si conferirebbe più potere economico alle donne raccoglitrici, ma si potrebbe eliminare lo stigma legato alla raccolta di rifiuti. Con un maggiore partecipazione ai corsi di formazione, più politiche per proteggere i raccoglitori e maggiori opportunità, per loro, di parlare dei problemi legati al lavoro”.

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