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Riscriviamo le nostre vite per credere alle balle che leggiamo online

Un nuovo studio dimostra come il pubblico inventa falsi ricordi per confermare le notizie false. Un trend preoccupante, che colpisce di più chi ha difficoltà cognitive

Foto: Alex Brandon/AP/Shutterstock

Negli ultimi anni, dopo l’elezione di Donald Trump, tutti ci siamo resi conto di quanto la disinformazione sia diffusa, e soprattutto di quanto le grandi aziende tech abbiano fatto finta che il problema non esista. Quello di cui non parliamo mai, in realtà, è quanto il pubblico sia diventato suscettibile alle fake news – e quanto i nostri pregiudizi ci rendano predisposti a credere a qualsiasi stronzata. Uno studio scientifico, pubblicato sul magazine Psychological Science, dimostra quanto sia semplice essere manipolati, e quanto sia invece difficile per tutti distinguere i fatti dalla fantasia.

Supervisionato da Gillian Murphy, docente alla scuola di Psicologia Applicata dell’Università di County Cork, lo studio è stato condotto nel 2018, in particolare nella settimana precedente alla proposta di abolizione dell’Ottavo Emendamento, proposta che avrebbe reso l’aborto illegale in tutti i casi, esclusi quelli in cui la gravidanza mette in pericolo di vita la donna. I ricercatori hanno chiesto a 3mila elettori come avrebbero votato nel referendum, poi gli hanno sottoposto sei articoli sull’iniziativa, due di questi costruiti ad arte per contenere dichiarazioni incendiarie di esponenti di entrambi gli schieramenti. Agli elettori, poi, è stato chiesto se avessero sentito quelle storie, e se ricordavano qualcosa. L’obiettivo era non solo determinare quanto siamo attratti dalle “fake news”, ma anche capire perché alcune notizie funzionano meglio con chi ha determinate visioni politiche – a prescindere da quanto siano vere le informazioni riportate.

Secondo lo studio, quasi metà degli elettori sostenevano di ricordare di aver letto gli articoli falsi, e alcuni hanno addirittura aggiunto dettagli mancanti. Di per sé non è una notizia sconvolgente: è molto comune fingere di essere più informati di quanto si è davvero, e dichiarare di conoscere un articolo mai visto prima è sicuramente conseguenza di questo impulso.

Quello che spaventa di più, in realtà, è la predisposizione dei soggetti a inventare ricordi sulla base delle proprie convinzioni politiche. È un atteggiamento comune a tutti gli elettori: chi è a favore della legalizzazione dell’aborto, per esempio, ricorda false dichiarazioni infamanti di politici dello schieramento opposto, e lo stesso succede per chi invece è contrario. In altre parole, i soggetti dello studio ricordavano informazioni che confermavano le loro visioni politiche a prescindere dalla loro veridicità – e ancora peggio, quando i ricercatori hanno spiegato che alcuni di quegli articoli erano falsi, pochissimi riuscivano a identificarli.

Le implicazioni di questo studio sono chiare: non solo è incredibilmente facile costruire fake news per sfruttare i pregiudizi del pubblico, ma lo stesso pubblico avrà difficoltà a cambiare prospettiva anche dopo aver scoperto quali informazioni sono vere e quali no. «La gente agisce sulla base di questi falsi ricordi, e spesso è difficile convincerli che stanno leggendo una fake news», dice Elizabeth Loftus dell’Università della California, co-autrice dello studio, in un comunicato stampa. Nel frattempo i social media si rifiutano di censurare o “nascondere” le false informazioni, facendo sì che si diffondano liberamente e appaiano legittime agli occhi degli utenti.

Non tutti, però, sono suscettibili al fascino delle fake news: leggendo i risultati dei test cognitivi a cui sono stati sottoposti i partecipanti allo studio, è chiaro che chi ha ottenuto punteggi più bassi è più soggetto a ricordare fake news, al contrario di chi invece ha dei valori cognitivi più alti. Anche questa non è una vera sorpresa: ha senso che i più intelligenti siano più scettici verso l’informazione che consumano rispetto a chi, beh, lo è meno. Ma se pensiamo ai prossimi mesi, quando i nostri feed saranno inevitabilmente sommersi di titoli esagerati e hashtag improbabili, i risultati di questo studio non sono proprio confortanti.

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