Il commento che non poteva mancare puntuale è arrivato, e proviene da uno degli esponenti più autorevoli – e più romantici – del partito sul territorio. “Il voto di ieri in Abruzzo riapre una speranza per il centrosinistra e per il Partito Democratico” ha detto l’ex presidente della Provincia dell’Aquila Stefania Pezzopane all’indomani del voto regionale in Abruzzo. Anticipato di qualche mese per le dimissioni dell’ex presidente Luciano D’Alfonso – che ha preferito un posto sicuro in parlamento, saltando sulla prima scialuppa disponibile -, ha consegnato la regione a Marco Marsilio – che viene da Roma, e non ha nemmeno potuto votare per se stesso – e per la prima volta una presidenza a Fratelli d’Italia, perché ormai più stanno a destra e meglio è.
Eppure Pezzopane non è stata la sola a elargire pacche sulle spalle dopo il 30% circa ottenuto dal candidato del centrosinistra Legnini, con un 11% portato in dote dal Pd. Ok, il rivale di centrodestra ha preso 20 punti percentuali in più, e nel 2014 la coalizione aveva preso il 46,6% e i democratici il 25,5. Ma se l’Istituto Cattaneo dice che è finita la fuga di voti verso il Movimento 5 Stelle, che a sua volta ha fatto schifo alle urne, allora il bicchiere è mezzo pieno. E poco male se Salvini ormai è volato via, e i sondaggi che lo davano oltre il 30% in territori in cui fino a qualche anno fa nemmeno poteva mettere piede sono ampiamente confermati.
Il fatto è proprio questo. L’influencer del Viminale negli ultimi mesi, trasformando in luogo di scontro e campagna elettorale tutto quello che trovava sul suo cammino di ministro lancia in resta, ha fatto il botto, dimostrando una volta di più come con un paio di idee e ben strumentali – la questione migranti e poco altro – in questi tempi schizofrenici si possa fare saltare il banco. Gli esempi sono tanti: i flussi elettorali ormai vengono stravolti nel giro di una tornata, perché nulla o quasi è rimasto della vecchia politica e delle sue dinamiche ingessate. Pensiamo che Macron – che qualcuno si sognava di copiaincollare dall’altra parte del Frejus – ha fondato il suo En Marche appena otto mesi prima delle presidenziali francesi e dell’ascesa all’Eliseo.
C’è chi nel volgere di un paio di un paio di stagioni erige il proprio trionfo, e cancella ogni macchia dal proprio passato (l’esperienza da ministro sotto Valls e Hollande per Macron, tutto quanto il cv per Salvini). C’è chi invece pare condannato a vita a pagare la propria stessa presenza al mondo, e sta per festeggiare alla grande un anno di paralisi più totale.
Era iniziata il 4 marzo quella del Pd, e in un primo momento era stata considerata quasi inevitabile considerato lo shock dei dati delle elezioni politiche. Il fatto è che il partito ha il metabolismo lento. Una formazione nata poco più di 10 anni prima – come passa il tempo quando ci si diverte – con vocazioni maggioritarie, si trovava a dovere decidere se stampellare un governo a 5 Stelle dopo lustri di insulti vicendevoli, oppure se consegnare l’odiato Gigino all’abbraccio venefico di Salvini.
Uno strano contrappasso per un partito che nel 2013 – la delusione elettorale di Bersani, a posteriori, andava festeggiata con un after di tre giorni al Nazareno – si era ritrovato nella medesima situazione, ma al contrario: allora Beppe non uscì da quel blog (cit. Matteo Renzi, qualche tempo dopo) e l’epopea della XVII legislatura ebbe inizio. Letta, Renzi, Gentiloni. Ma anche e soprattutto Alfano, Casini, Verdini, e prima ancora Monti e la Fornero. Il Pd pagherà queste tasse in eterno, anche al di là dei propri epici demeriti.
Il partito rimaneva ostaggio di Renzi e di una dialettica fatta di “vorrei, ma non posso” da parte delle opposizioni interne e di “non condivido tutta la linea, ma è la nostra unica speranza” di una maggioranza spesso tale per convenienza. La spaccatura con l’ala “sinistra”, d’altra parte, aveva già portato alla fallimentare gestazione di una nuova creatura parlamentare, poi confluita in LeU – che meriterebbe presto un’altra disanima, anzi finiamo questa e la scriviamo -, e aveva acuito i malumori anche tra i sostenitori di una vita. E così la “mozione lemmings”, senza che nessuno si facesse troppe domande, si impose e guidò la campagna elettorale fino al ferale voto di un anno fa.
Ma torniamo alle idi di marzo del 2018. Allora Matteo Renzi si era appena dimesso e nel Pd era iniziata la notte dei lunghi coltelli con le punte arrotondate. L’ex sindaco di Firenze aveva rappresentato per molti la speranza del futuro, sotto forma di un lifting totale del partito che desse nuovo vigore all’autolesionistica vocazione maggioritaria che Veltroni – che oggi intervista direttori sportivi sulla Gazzetta dello Sport – aveva immaginato. Le elezioni europee di cinque anni fa, con lo straripante 40,8%, alimentarono fatalmente quell’illusione. Paradossalmente anche il Referendum Costituzionale del dicembre 2016, almeno in termini di consensi assoluto, non fu visto come un cattivo risultato, anche se rappresentò l’inizio di una fine imprevedibilmente accelerata.
Nel frattempo era nato un governo di estrema destra senza la licenza media, di meglio non si poteva chiedere per dare vita a un’opposizione senza quartiere. Invece il grande ricatto renziano continuava, mentre il master of puppets di Rignano decideva di dedicarsi al calcio storico fiorentino. E condizionava pesantemente l’accidentatissimo percorso per la successione, in vista delle elezioni europee che saranno fra pochi mesi e di cui per carità di patria evitiamo di parlare.
A guidare la carovana Maurizio Martina, l’uomo di Bersani in Lombardia, poi numero due di Renzi, poi, dopo un’abile finta di corpo, renziano eterodosso e volto semi-nuovo del partito. A novembre, accompagnata da polemiche a ritmo giornaliero, arrivava l’Assemblea nazionale, in ossequio a tutta una serie di vecchi riti che il (loro) capitano si mangia a colazione assieme a un piatto di bucatini da voltastomaco.
All’Ergife di Roma, cattedrale della vecchia politica e dei concorsi di Stato, si consumavano gli ennesimi strappi su regole e tempi per le primarie, le elezioni per nominare il nuovo segretario. Saranno il 3 marzo, a un anno (quasi) esatto dalla disfatta: la scelta di chi è più forte di ogni scaramanzia. Soprattutto, iniziava allora un valzer sui nomi dei candidati davvero stupefacente.
Quello più forte era e rimane Nicola Zingaretti, presidente del Lazio, una specie di uomo della provvidenza in tempi di vacche anoressiche per via del fatto che negli ultimi due anni è stato uno dei pochissimi a riuscire a vincere pur gravato dalla bandiera democratica. Poi lo stesso Maurizio Martina, che inizialmente non doveva esserci e poi invece c’è, anche se non è affatto chiaro su quali posizioni: lui ci tiene a dire che non è (del tutto) renziano, Renzi ha fatto capire di non essere del tutto martiniano.
Perché intanto è entrato in scena Bobo Giachetti, tra i volti più rispettabili del partito e uomo più vicino all’ex Presidente del Consiglio, oggi confinato al ruolo di spingitore di cavalieri (cit. Vulvia) contro i draghi favoriti. E ancora Francesco Boccia e Cesare Damiano, due soci storici della ditta che portano istanze personali o poco più. La quota Young & Wild & Free è rappresentata da Dario Corallo, simpaticissimo personaggio vagamente verdoniano che è riuscito a fare incazzare tutti quanti la prima volta che ha avuto un microfono in mano, e Maria Saladino.
Ci sono poi quelli che si sono fatti da parte: Matteo Richetti, altro ex renziano ma forse anche no, mediaticamente tra i più efficaci, ora convogliato nel martinismo. E, soprattutto, l’ex ministro Minniti, protagonista del vero psicodramma nello psicodramma di queste primarie. Non si voleva candidare, poi lo ha fatto ed ecco che in fondo al tunnel alcuni pensavano di aver intravisto una luce. Dopo una manciata di giorni il fragoroso passo indietro, constatato che da parte del solito Renzi non era arrivato un appoggio che pareva scontato – che poi perché, considerate le storie personali dei due? – alla sua candidatura. “In queste condizioni non ha senso andare avanti, rischiamo di prendere il 20%”, le sue parole. Inguaribile ottimista.
Ci siamo, dunque, anche se l’appassionante corsa non trova lo spazio che meriterebbe sui giornali e le tv di tutto il mondo (mi odio, quando faccio le stesse battute di Travaglio). Forse – se non si troverà il modo di fare succedere il contrario – vincerà Zingaretti, che per lo meno potrà dire di non essere complice di tutti gli abomini che ogni giorno vengono imputati al Pd e ai “pidioti” (comunicazione di servizio: se usi questa espressione sei un fesso, anche se pensi di essere sagace). Lo aveva detto qualche tempo fa Sandro Veronesi durante una lunga intervista: “Ormai ogni cosa che si fa e si dice si viene tacciati di essere del Pd, prima si levano di torno e meno danni fanno”.
Avviene anche quando i suoi esponenti non fanno proprio nulla, come nel caso della recente presenza di alcuni parlamentari sulla nave Sea Watch ferma al largo di Siracusa: non c’era nessun democratico a bordo – sia mai! -, eppure per tutti quella è diventata “la visita del Pd ai migranti”. Già, i migranti. Uno dei tanti temi su cui in quest’anno di rilassante vacanza post-traumatica il partito si è guardato bene dal fare opposizione. Forse perché un suo esponente, Minniti, aveva inaugurato tutte le politiche che ora Salvini porta alle estreme conseguenze, passando all’incasso in termini di voti.
Stesso discorso per quanto riguarda l’economia: con il burrone ormai a meno di mezzo passo, l’argomento antigovernativo principale è stato fin qui “volete fare rimanere i giovani sul divano”. Per non parlare della fastidiosa retorica costante su quanto siano ignoranti e inadeguati i 5 Stelle. Oppure la strategia del “avete visto, fate come noi” che, utilizzata dal salvataggio di Carige alla lottizzazione della Rai, a qualcuno deve parere una gran trovata. A scendere in piazza non ci si pensa nemmeno – a parte a fine settembre a piazza del Popolo, per una manifestazione tutto sommato riuscita -, perché misurarsi con i numeri è sempre complicato. E anche quel fronte così viene lasciato al vorace Matteo da Milano.
Il punto è che, senza una guida e una linea comune, non c’è alcuna politica possibile, e nemmeno l’opposizione a un governo immondo. E infatti ci sono solo alcuni esponenti che portano avanti le proprie battaglie – di visibilità più che legittima – personali, ora Marattin sui conti pubblici, ora Fiano su sicurezza e legalità. Della serie “aridatece le correnti”, che nello scannarsi quotidiano dei vari pedoni e alfieri qualche idea ogni tanto saltava fuori.
Non è un gran segnale se l’unico che pare averne per lo meno qualcuna si sia chiamato fuori, ritagliandosi il ruolo di contro-burattinaio dal tweet acuminato. Già, perché non è chiarissimo cosa intenda davvero fare Carlo Calenda, che pur è dotato di argomenti più solidi di altri contro i gialloverdi che ci governano. Per ora è riuscito a mettere assieme tutto quanto un partito allo sbando attorno al suo manifesto europeista , e non è poca cosa visto che persino per prenotare il pranzo a volte fanno una fatica tremenda. Da lì a attribuirgli dosi messianiche – lo stesso errore che è stato fatto più volte in passato -, ce ne passa.
Chissà se basteranno il buon senso e il pragmatismo di Calenda, ora che le elezioni sono alle porte e dal voto di fine maggio potrebbe uscire un’Europa davvero aberrante. E poi ci sarebbe anche un Paese da ricostituire, per farlo uscire dalla spirale dell’odio e del fallimento dei conti pubblici. O, per lo meno, da dargli un’opposizione, di cui ogni comunità ha bisogno come dei carboidrati un infelice.
Perché quando le menti meno brillanti della fanbase sovranista ripetono come un mantra “e allora il Pd?” per giustificare le cazzate dei loro muscolari leader per caso, in realtà, partendo dalle basi sbagliate, si pongono la domanda corrette. E allora il Pd, ha intenzione di fare qualcosa oppure no? Capiamo lo stress di un anno complicato, ma dodici mesi da hikikomori potrebbero anche essere stati sufficienti. Che dite?