L’inchiesta condotta dal Wall Street Journal e dal gruppo di giornalismo investigativo Bellingcat, secondo cui l’oligarca russo Roman Abramovich e almeno due negoziatori ucraini sarebbero stati avvelenati nella notte tra il 3 e il 4 marzo, durante il primo giro di negoziati al confine con la Bielorussia, ha riportato alla luce uno dei marchi di fabbrica per cui Vladimir Putin è diventato tristemente celebre negli ultimi anni: l’avvelenamento degli oppositori politici, fuori e dentro i confini nazionali.
Eppure, nell’era dei missili ipersonici e dei Bayraktar, il veleno appare un metodo antiquato e scomodo, quasi anacronistico: può essere pericoloso non soltanto per le vittime, ma anche per gli assassini che vengono indotti a trasportarlo in giro per il mondo; insomma, ha tutto l’aspetto del tipo di arma che prediligerebbe il cattivo di un romanzo di finzione dell’Ottocento, non certo il leader di una superpotenza nucleare come la Russia. In realtà, come ha dichiarato Mark Galeotti, esperto di sicurezza militare e di sicurezza russa, in un’intervista concessa a Business Insider, il veleno funziona come una sorta di “firma”: permette di commettere un omicidio sancendo pubblicamente chi è il mandante ma lasciando poche possibilità agli investigatori di stabilirlo con certezza. In altri casi, funziona da deterrente nei confronti di eventuali emulatori, come una sorta di monito che recita: «non importa dove troverai rifugio, ti abbiamo in pugno» (sul tema, consigliamo anche questo articolo di Enrico Pitzianti su Wired).
Dal 1999 – l’anno in cui un ex agente del KGB pressoché sconosciuto all’opinione pubblica fu designato come primo ministro della Federazione Russa dal presidente Boris El’cin, che lo desiderava fortemente come proprio successore – a oggi, Putin non ha mai nascosto una certa passione per questo tipo di soluzioni, ad esempio inviando sicari muniti di novichok nelle principali capitali europee per eliminare le voci considerate un po’ troppo critiche.
Da Litivinenko a Navalny, le “purghe” somministrate dai servizi segreti russi nei tempi più recenti sono accomunate tutte da un inquietante fil rouge: ripercorriamolo, sia mai che possa tornare utile alla claque (minoritaria ma, ahinoi, parecchio rumorosa) dei sostenitori nostrani di Putin.
Forse, finalmente, potranno fare ritorno da quel luogo della mente distorto in cui un autocrate guerrafondaio viene equiparato a un leader di Stato sicuro e affidabile e fare pace con la sua vera essenza: quella del rappresentante del più nefasto tra i servizi segreti russi, che non ha mai saputo estirpare il colonnello del KGB che vive in lui e che, quando può, soffoca nel gas nervino ogni forma di dissenso.
Viktor Yushchenko
Partiamo da uno dei casi più eclatanti, anche per via di qualche collegamento con il presente: nel 2004 Viktor Yushchenko, candidato alle elezioni presidenziali ucraine e leader dell’opposizione al presidente filo-putiniano Viktor Janukovyč, venne ricoverato in Austria dopo essere stato vittima di un avvelenamento da diossina. Il suo volto divenne gonfio e segnato da una pesante eruzione cutanea con eritema ed eczema molto evidenti, che gli lasciò in eredità cicatrici permanenti. L’intossicazione sarebbe stata causata da un’indigestine, durante una cena con i servizi di sicurezza ucraini, in relazione all’ultimo piatto servito quella sera: una minestra – che a differenza delle altre portate fu servita in monoporzioni. Dopo l’identificazione del particolare tipo di diossina impiegato, lo staff di Juščenko inviò una richiesta rispettivamente ai quattro laboratori al mondo in grado di produrlo, al fine di scoprirne l’esatta provenienza; dei riscontri pervennero da tutti i laboratori, tranne che da quello moscovita. Qualche settimana dopo l’avvelenamento, alcuni membri dei servizi segreti ucraini lasciarono Kiyv per trasferirsi stabilmente a Mosca. Uno di loro era l’ex numero due dei servizi ucraini, Volodymyr Satsyuk, che ha poi ricevuto la cittadinanza russa.
Alexander Litvinenko
La lista delle sfortunate coincidenze prosegue con Alexander Litvinenko, un ex agente dell’FSB che ha servito l’intelligence patria per lunghi anni. Nel 2000, Litvinenko fu costretto a trovare rifugio a Londra, reo di avere accusato i propri superiori di aver ordinato l’assassinio dell’oligarca Boris Berezovsky, uno dei primi miliardari del periodo post-sovietico e un nume tutelare della mafia russa. Durante il suo soggiorno in Gran Bretagna, Litvinenko ricollegò a più riprese il leader del Cremlino Vladimir Putin all’assassinio della giornalista di Novaja Gazeta Anna Politkovskaya, che fu ritrovata morta nell’ascensore del suo palazzo a Mosca il 7 ottobre 2006 – e che, sempre per uno strano scherzo del destino, è l’autrice del libro-inchiesta anti-Putin più famoso e diffuso al mondo, ristampato recentemente in italiano dalla casa editrice Adelphi. Litvinenko trovò la morte il 23 novembre 2006, in seguito a un avvelenamento da polonio (che gli era stato somministrato in una tazza di tè).
Kara Murza
Anche Kara Murza, giornalista televisivo con una laurea in storia presa a Cambridge e con doppia cittadinanza, britannica e russa, nonché membro del movimento dissidente Open Russia, ha conosciuto da vicino i metodi di Putin, sopravvivendo a ben due tentativi di avvelenamento: il primo nel 2015 e il secondo nel 2017, in ambedue i casi intossicazioni dovute a sostanze sconosciute.
Sergej Skripal
Il 4 marzo 2018, l’ex agente dell’intelligence Sergei Skripal e sua figlia Julia (che era andata a trovarlo) vennero ritrovati privi di sensi su una panchina, in un pacchetto della cittadina britannica di Salisbury: furono avvelenati attraverso un agente nervino, il novichok. Entrambi sono guariti dopo un lungo ricovero in terapia intensiva in ospedale, così come un poliziotto britannico rimasto contaminato.
Alexey Navalny
Chiudiamo con la storia più prossima ai nostri giorni, ossia quella di Alexei Navalny, il politico russo rimasto in coma per diciotto giorni dopo una tazza di tè avvelenato nell’aeroporto siberiano di Tomsk (anche in questo caso, cortesia di un’intossicazione con l’agente nervino novichok), a tremila chilometri da Mosca. Navalny ha fatto rientro in Russia dove è stato subito arrestato: la scorsa settimana, ha ricevuto una nuova condanna a nove anni di carcere. Oppositore di Putin e leader del partito nazionalista “Russia del futuro”, ha acquisito una certa fama grazie alle inchieste sulla corruzione che diffondeva attraverso il suo canale YouTube, che hanno colpito con i piani alti di Mosca – vedi quella sull’ex premier ed ex presidente Dmitri Medvedev – e anche i piccoli potentati locali legati agli ambienti della criminalità e dei servizi di sicurezza.