La supervittoria della Lega di Matteo Salvini e la caduta a piombo dei Cinque Stelle sono due delle poche notizie clamorose offerte dalle elezioni europee. E così l’Italia, che già si era segnalata nel 2014 per l’exploit del Partito democratico di Matteo Renzi, ha un’altra volta un ruolo di vedetta presso i cacciatori di novità.
Un’altra tendenza, parzialmente inedita e sicuramente rilevante, è il successo dei Verdi. Il gonfiarsi della pattuglia ambientalista, però, è dovuto in realtà al successo di un solo partito, quello dei Grünen tedeschi, e in molti Paesi anche di un certo rilievo, come ad esempio la Spagna e l’Italia, di verde ci sono soltanto le coccarde e i parafernalia elettorali della destra vociferante. Con il consueto sensazionalismo di un’informazione ormai incocainata a ritmo di social e avvezza ad avvistamenti allucinatori di branchi di lupi – tra Notre-Dame che non c’è più, la penetrazione di Casa Pound nelle periferie disagiate (0,33 per cento a livello nazionale, con rari “picchi” sopra lo 0,5) e qualche nuova Blue Whale che si sta diffondendo sugli smartphone degli adolescenti – man mano che lo spoglio procedeva, molte altre cose sono state raccontate come se fossero delle gran notizie. E invece, o si trattava della semplice conferma di fenomeni già in atto da tempo, o di considerazioni vere ma molto gonfiate o di notizie che non lo erano, per rubare una brillante definizione di Luca Sofri.
La crescita dei sovranisti. Mah… Sarà che è stata così tanto annunciata, ma questa grande ondata non l’ha vista nessuno, tranne Matteo Salvini che, già a caldo, ha descritto una formidabile palingenesi anti-establishment del Parlamento europeo che in verità c’è stata soltanto tra gli eletti italiani, e proprio grazie al suo partito. Ma Viktor Orbán ha ottenuto più del 50 per cento! E questa sarebbe una novità? Nelle politiche del 2018 Fidesz, il partito del “dictator” magiaro (copyright Jean-Claude Juncker), ha ottenuto il 49,3 per cento; nelle Europee del 2014 il 51,5 per cento; nelle Politiche del 2014 il 44,87 per cento; nelle Politiche del 2010 il 52,7 per cento; e nelle Europee del 2009 il 56,36 per cento. Gli ungheresi, che sono i veri bulgari, non ci hanno quindi offerto niente di nuovo. E comunque la grande vittoria di Orbán vale tredici deputati su 751, deputati che oltretutto, almeno per ora, siederanno tra i popolari: non esattamente uno sconvolgimento tellurico capace di squassare l’Unione europea, insomma. E la Le Pen?!? Il suo partito è il primo in Francia, proprio come cinque anni fa, anche se questa volta la percentuale è leggermente più smilza. Uno smacco per Emmanuel Macron, che è lì, a soli 0,9 punti di distanza? Sì. Una catastrofe per Macron? No. Una gran novità? Neanche. Se si votasse domani per le Presidenziali chi le vincerebbe? Quasi sicuramente Macron. Avanti il prossimo.
Nigel Farage e il Brexit Party? Per quattro anni, l’unica discussione politica con diritto di cittadinanza nel Regno Unito è stata la Brexit e, dopo che il loro amato Paese è finito a fare sgommate nel fango e non è riuscito a ritornare sull’asfalto di un qualunque buonsenso, gli inglesi hanno scoperto di dover partecipare di gran corsa a un assurdo voto europeo. Ecco: avrebbe forse potuto non nascere un Brexit Party? E il Brexit party avrebbe potuto non arrivare primo alle elezioni (31,6 per cento) davanti ai liberal-democratici (20,3 per cento)? E chi avrebbero dovuto votare i britannici? I Tories che hanno fatto la più miseranda figura della politica inglese moderna con il loro grottesco mishandling durante le manovre di disancoraggio dell’isola dal porto europeo? O i laburisti incapaci di dire anche soltanto una parola chiara sulla faccenda? Adesso, grazie al “sorprendente” risultato del Brexit Party, sappiamo che un elettore britannico su tre, anzi un po’ meno, è esplicitamente favorevole a sventolare il fazzoletto verso le coste della perfida Normandia. Wow! Davvero una gran novità, se si considera che nel 2016 i “sì” alla Brexit nel referendum furono il 51,9 per cento.
Intanto, i due grandi gruppi, quello popolare e quello socialista, continuano la loro emorragia. È un fenomeno rilevantissimo, ma anche questa non è certo una novità. Tra l’altro va notato che, se queste elezioni europee hanno piantato l’ennesimo chiodo sul coperchio della bara di alcuni tradizionali partiti che furono grandi e che appartengono, parlandone da vivi, a una delle due famiglione dell’aristocrazia bruxelles-strasburghese (ad esempio il partito socialista francese, il partito socialista greco, il partito post-gollista francese e Forza Italia), il grafico che indica le condizioni di salute dei rossi del Pse e dei blu del Ppe è ben più frastagliato: infatti, ci sono anche dei vincitori che sono riusciti a riscuotere un buon successo proprio facendo valere il loro marchio vintage (come, ad esempio, i socialisti spagnoli e i greci di Nuova democrazia) e dei perdenti che hanno mostrato qualche imprevedibile capacità di riscatto (il Partito democratico nostrano e il Partito popolare spagnolo, che è andato malissimo ma è riuscito a contenere i danni rispetto alle Politiche di un mese fa).
Anche il crescente divario nelle scelte di voto tra città e non-città è soltanto la nuova stagione di una serie che va già in onda da qualche anno. Ma se pure questa non è una novità, alcuni risultati sono in effetti impressionanti. Se si analizzano i dati, questa tendenza è macroscopica. Ma forse, se ci si limita a guardare i risultati nazionali complessivi, rimane invece nascosta. E vale quindi la pena di fare qualche esempio. Come già accaduto alle Presidenziali, a Parigi-città madame Le Pen non ha neanche un pied-à-terre: 23,3 per cento dei voti a livello nazionale, ma soltanto 7,2 per cento nella capitale. E, apparentemente, tutto questo capita senza che neanche un bimotore della George Soros Airlines abbia sorvolato l’Île de la Cité lanciando pacchi di banconote agli elettori in marcia verso il seggio. In Olanda, i verdi sono il quinto partito: ma ad Amsterdam, a Utrecht e a Groeningen – cioè nella prima, quarta e settima città del Paese – sono primi. In Italia, il Pd è il partito più votato, e con margini talvolta molto importanti, a Roma, Milano, Torino, Genova, Firenze (ma solo lì, o quasi). E, per limitarsi alla Lombardia, a Milano, tra i professoroni del Giambellino, tra i radical-chic del Lorenteggio e tra i fighetti di Niguarda, ha conquistato quei voti che non è invece riuscito a ottenere dal Lumpenproletariat dell’Aprica, costretto peraltro a convivere con torme di immigrati zozzoni. A Londra il primo partito è quello liberal-democratico. Il partito liberal-democratico? Sì, proprio quel partito che da decenni, nel Regno Unito, arriva terzo tutte le volte in cui non arriva quarto o quinto (questa volta, in realtà, è arrivato secondo a livello nazionale ma è in testa solo ed esclusivamente in un posto in tutto la Gran Bretagna, e questo posto è Londra). In Germania i Verdi, che pure hanno avuto una spettacolare affermazione, arrivando in seconda posizione alle spalle di Frau Merkel sono invece primi, e di gran lunga, a Berlino, Amburgo, Monaco, Colonia, Francoforte, Stoccarda, Düsseldorf, Dortmund e Lipsia, cioè in otto delle dieci più popolose città tedesche.
E poi? E poi nelle elezioni europee sono successe anche cose normali. Ad esempio, in Grecia, dove il partito del premier Tsipras, Syriza, ha perso molti voti, il centrodestra ha vinto le Europee e ora si andrà a elezioni politiche anticipate. E che cosa doveva fare il povero Alexis? Ha portato un partito della sinistra radicale al governo; ha raccolto un Paese in frantumi; si è alleato con un mini-partito della destra nazionalista (i Greci indipendenti, cioè una specie di Fratelli di Grecia); ha seguito in modo obbedientissimo le regole che gli sono state inflitte e che non erano certo un granché compatibili con il rossissimo programma di Syriza; ha pure risolto il ventisettennale conflitto onomastico con la Macedonia, che così è diventata Macedonia del Nord. Ora il suo partito è stremato e, pur senza crollare (ha preso un dignitoso 23 per cento), alle Europee ha ceduto il passo elettorale al centrodestra, e forse perderà anche le elezioni politiche anticipate. Ma questa non è una notizia, come è sembrato a qualcuno, ma è una cosa normale: si chiama alternanza, un’alternanza in cui a destra c’è sempre Nuova Democrazia mentre a sinistra Syriza ha sostituito il Pasok. La vera notizia greca, invece, ed è una gran bella notizia, è che i neonazi col menandro uncinato di Alba Dorata, il partito peggiore d’Europa, sono andati piuttosto male. Nῦν χρῆ μεθύσθην, come scriveva il loro compatriota Alceo, ora bisogna ubriacarsi. Per la felicità.
Di cose interessanti, in queste elezioni europee, ne sono successe molte, ma di grandi novità, al di là dell’italica capriola che ha trasformato i gialloverdi in verdegialli, non ce ne sono state. Certo, il Parlamento europeo è sempre più simile a quello dell’Italia del pentapartito. E, se con “sovranismo” si intendesse esclusivamente l’esaltazione elettorale delle specificità nazionali, allora il sovranismo avrebbe davvero stravinto le elezioni europee: infatti, ventotto voti hanno dato ventotto risultati diversi. Certo, dando uno sguardo di insieme, si possono rintracciare tendenze, contatti, somiglianze e differenze. Ma soprattutto, per ciascun Paese, si può individuare una serie di ragioni specialissime e particolari che hanno condotto a quel risultato. Questa è l’Europa, e anche questa non è una novità: l’Europa è una complicazione insanabile. Ma il frammentarsi, le nuances, la moltiplicazione dei partiti, la parcellizzazione dei gruppi parlamentari e il brulichio di istanze locali non sono per forza un segnale di “crisi” dell’Europa. Semmai sono il riverbero della sua inesauribile bellezza. Nonché l’antidoto migliore contro il consolidarsi di un blocco antieuropeista capace davvero, al di là delle ciarle, di far implodere l’Unione.