Dal 13 al 19 febbraio si svolgeranno a Roma passeggiate, concerti, proiezioni, dibattiti e altre iniziative sui crimini e le eredità del colonialismo italiano.
Il prossimo 19 febbraio (Yekatit 12, nel calendario etiope) ricorrerà infatti l’86° anniversario della strage di Addis Abeba, uno dei più efferati crimini commessi dal Regno d’Italia nelle sue colonie. La brutale rappresaglia del 1937 per il fallito attentato contro il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani è riemersa dopo un lungo oblio anche grazie al lavoro dello storico inglese Ian Campbell, autore de Il massacro di Addis Abeba. Una vergogna italiana (Rizzoli, 2018).
Come spiegano gli organizzatori e le organizzatrici della neonata Rete Yekatit 12–19 febbraio, gli eventi di questi giorni sono stati organizzati per «sostenere e promuovere l’applicazione della mozione 156 approvata dal Consiglio Comunale di Roma Capitale il 6 ottobre 2022 per la risignificazione dell’odonomastica coloniale presente nella città di Roma e l’istituzione del 19 febbraio come ‘Giornata di riflessione sui crimini e sulle eredità del colonialismo italiano».
Abbiamo raccolto le voci di alcune persone coinvolte in questo percorso collettivo partito dal basso, ma con l’ambizione di rendere il 19 febbraio una data significativa della memoria pubblica italiana.
Lorenzo Teodonio – autore insieme a Carlo Costa di Razza Partigiana (Iacobelli, 2008), biografia del partigiano italo-somalo Giorgio Marincola – fa parte della Rete Yekatit 12-19 Febbraio. «Quando vent’anni fa ci siamo avvicinati al tema, di colonialismo si occupavano essenzialmente gli ambienti accademici», spiega Teodonio, citando tra gli altri Angelo Del Boca (il maggiore studioso del colonialismo italiano scomparso il 6 luglio 2021 all’età di 96 anni), Alessandro Triulzi e Alessandro Volterra. «Tuttavia se ne parlava anche in ambienti letterari: dai romanzi cosiddetti coloniali di Andrea Camilleri come il bellissimo La presa di Macallè (Sellerio, 2003) e Il nipote del Negus (Sellerio, 2010) a Enrico Brizzi con L’inattesa piega degli eventi (Baldini Castoldi Dalai, 2008), passando per Carlo Lucarelli con L’ottava vibrazione (Einaudi, 2008). Ma penso soprattutto ai Wu Ming: da Razza Partigiana è nato Timira, il libro su Isabella Marincola (sorella di Giorgio) scritto dal figlio Antar Mohamed e Wu Ming 2. Sempre con i Wu Ming abbiamo creato la Federazione delle Resistenze, un collettivo di collettivi di cui fa parte anche il laboratorio culturale bolognese Resistenze in Cirenaica, che dal 2015 si occupa di demolire la narrazione degli italiani brava gente e riportare a galla il rimosso coloniale».
E a proposito del rimosso coloniale da riportare a galla un libro ancora oggi indispensabile per comprendere le tracce del nostro passato è Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città (Ediesse, 2014) della scrittrice italiana di origine somala Igiaba Scego e del fotografo Rino Bianchi.
Teodonio ricorda inoltre un’altra mobilitazione dal basso per intitolare una stazione della metro di Roma a Giorgio Marincola. «Con la rete locale di Black Lives Matter e il giornalista Massimiliano Coccia abbiamo ottenuto dalla precedente giunta grillina che una fermata della metropolitana – che inizialmente avrebbe dovuto chiamarsi Ambaradan, quindi un luogo comunque legato al colonialismo – fosse dedicata a Giorgio Marincola. Questa parziale vittoria ora sembra messa in dubbio dall’attuale amministrazione di centrosinistra. I segnali che arrivano su questa intitolazione fanno temere un ripensamento, ma speriamo che non sia così. Ci auguriamo che la stazione possa essere pensata come uno spazio che rechi il segno non solo della storia archeologica presente in zona, ma anche di quella risalente al colonialismo che, come sappiamo, è durato in Italia quasi ottant’anni partendo dalla fine dell’Ottocento e arrivando fino al 1960. È una storia molto più recente che dovremmo finalmente affrontare».
Per Zakaria Mohamed Ali, documentarista e vicepresidente dell’Archivio Memorie Migranti, il filo rosso che attraversa e unisce le iniziative che si terranno fino al 19 febbraio è la memoria, un aspetto fondamentale del suo lavoro. «Solo attraverso la memoria delle persone si può svelare cosa è stato davvero il colonialismo italiano. Questa settimana potrebbe rivelarsi un modo efficace per ricordare le atrocità commesse in Africa, ma a mio avviso dovrebbe diventare qualcosa di permanente».
Secondo l’attrice e autrice Tezeta Abraham è importante ricordare i massacri di Addis Abeba, Debre Libanòs e l’uso delle armi chimiche in Etiopia perché la maggior parte degli italiani ignora ciò che è accaduto. Abraham, nata a Gibuti da genitori etiopi ma cresciuta fin da piccola a Roma, non nasconde la complessità di un rapporto – quello con l’Italia – non sempre facile. «Per certi versi vivo in maniera conflittuale l’aver preso la cittadinanza italiana perché il semplice fatto che sia io a parlare di questi argomenti crea sensi di colpa e fa alzare muri difensivi da parte dei miei interlocutori, nonostante l’intento non sia quello di puntare il dito contro qualcuno. Lo scopo è elaborare un trauma e avere gli strumenti per non compiere errori del genere in futuro».
Kwanza Musi Dos Santos, cofondatrice e presidente dell’associazione QuestaèRoma, si batte da anni per la riforma della legge sulla cittadinanza. Una questione legata anche al nostro passato coloniale. «Il tema della cittadinanza ha molti punti di contatto con Il colore del nome (Solferino, 2021) di Vittorio Longhi e altri dibattiti che si svolgeranno durante la settimana perché questa afrofobia in Europa, e soprattutto in Italia, discende direttamente dalla retorica disumanizzante che imperversava durante il colonialismo contro le persone africane e afrodiscendenti e che non è mai stata rielaborata».
A Leonardo De Franceschi, docente di Teorie e pratiche postcoloniali del cinema e dei media all’Università Roma Tre, abbiamo chiesto del rapporto tra cinema e colonialismo italiano. «Il cinema italiano si è occupato poco e male di colonialismo e quando lo ha fatto bene, penso a un capolavoro come La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo, si occupava del colonialismo “degli altri”. Rimane il capitolo ovviamente dei film coloniali del fascismo, fortunatamente pochi, una decina scarsa, tra Il grande appello (Mario Camerini, 1936) a Giarabub (Goffredo Alessandrini, 1942). Nel dopoguerra avremmo dovuto sviluppare anticorpi democratici tali da vedere con occhi nuovi questa pagina spregevole della storia italiana e invece per decenni ci siamo crogiolati nel mito bipartisan degli “italiani brava gente”, alimentato anche da documentari e commedie circolanti per tutti gli anni Cinquanta. Negli anni Sessanta, con un clima culturale diverso, l’Italia ha cominciato a guardare verso l’Africa con uno spirito di vicinanza ai movimenti di liberazione, ma senza mai fare i conti con i propri scheletri nell’armadio. Abbiamo dovuto aspettare film stranieri, come il kolossal Il leone del deserto (Mustapha Akkad, 1981) e documentari come il britannico The Fascist Legacy (Ken Kirby, 1989) per aprire una riflessione sui crimini del colonialismo italiano”.
Ma la situazione è migliorata negli ultimi anni? «Negli ultimi dieci, quindici anni alcuni documentaristi, come Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, ma anche Sabrina Varani e Loredana Bianconi, hanno aperto finalmente un tempo nuovo, segnato da un’attenzione alle ricadute di questa rimozione – ma meglio sarebbe dire memoria selettiva e interessata – del colonialismo italiano, sull’Italia di oggi, delle migrazioni, della convivenza transculturale e della cittadinanza negata. Alcuni titoli sono stati selezionati nella programmazione di Yekatit 12-19 Febbraio come Inconscio italiano, If Only I Were That Warrior, e come Asmarina di Medhin Paolos e Alan Maglio. Asmarina, in particolare, film del 2015 ma ancora attualissimo, racconta la memoria spesso dolorosa del lungo rapporto tra Italia e Paesi del Corno d’Africa, tra colonialismo e migrazioni, restituendo la parola soprattutto alle figlie e ai figli dell’incontro, tra “prime” e “seconde generazioni”, con l’idea di mostrare quanto abbiano contribuito col loro vissuto a cambiare le nostre città, in particolare Milano, ma anche Bologna e Roma, senza nulla concedere alla tentazione di costruire una memoria ecumenica e priva di conflitti. Si tratta di un film da rivedere anche alla luce delle manifestazioni sorte in seguito contro la statua di Indro Montanelli, eretta provocatoriamente a poca distanza dal quadrante “meticcio” di Porta Venezia».