Firmare petizioni online serve davvero a qualcosa? | Rolling Stone Italia
Un click e via

Firmare petizioni online serve davvero a qualcosa?

Davvero una raccolta firme, che non ha un valore legale, può fare la differenza?

Firmare petizioni online serve davvero a qualcosa?

Foto di Igor Golovniov/SOPA Images/LightRocket via Getty Images

“Liberare cento balene rinchiuse a scopi commerciali”, “Stefano Bettarini e le Mosetti fuori dal Grande Fratello Vip”, “congedo di paternità equiparato a quello di maternità” e “tuteliamo la voce e i diritti degli italiani all’estero”.

Sono solo alcune fra le migliaia di petizioni che dal 2007, anno della sua fondazione, la piattaforma Change.org ha messo online – e che magari qualche vostro conoscente vi ha girato su Whatsapp. Ogni giorno milioni di persone navigano sul suo sito – uno dei più utilizzati in assoluto – per lanciare, firmare e contribuire economicamente a campagne nate per sostenere tantissime tematiche diverse, dal cambiamento climatico, alla giustizia sociale, fino ai diritti degli animali, alcune più degne di nota di altre.

Basti pensare che nel 2019 la piattaforma ha raggiunto 329 milioni di utenti – solo in Italia più di 9 – per un totale di quasi 674 milioni di firme in tutto il mondo. Un successo che probabilmente sarà dovuto in parte anche all’intuitività del funzionamento della sua piattaforma: chiunque può registrarsi in pochi passaggi e avviare gratuitamente, e in qualsiasi momento, una petizione su un certo tema, stabilire degli obiettivi per la sua riuscita e promuoverla – principalmente tramite social network – invitando quante più persone possibili a firmarla.

Change.org dice di pubblicare ogni mese, in media, più di 40mila petizioni, e che ogni ora una di queste raggiunge la vittoria («che sia cambiando una legge, una politica aziendale o la decisione di qualcuno che detiene un potere Istituzionale, impattando direttamente le vite di migliaia o milioni di persone»).

Ma davvero una raccolta firme, che non ha un valore legale, può fare la differenza? Dare una risposta univoca è complicato. Chi studia l’attivismo digitale dice che il più grande potere delle petizioni online è quello di riunire tantissime persone, spingendole a battersi per qualcosa per cui altrimenti non si sarebbero mosse.

«Venire a conoscenza di un problema attraverso una petizione online o un’altra campagna digitale può indurre le persone a fare ulteriori ricerche e leggere online, il che può portare a livelli più elevati di coinvolgimento e impegno», ha spiegato alla CNN Rosemary Clark-Parsons, direttrice associata del Centro per la cultura e la società digitale dell’Università della Pennsylvania. Mentre per i critici le campagne virtuali «non impegnano i suoi firmatari ad alcuna ulteriore azione diversa dal click di un pulsante», per l’esperta sono proprio la facilità e l’accessibilità che rendono le petizioni strumenti così potenti. «Aggiungere la tua firma ad altre che chiedono un certo tipo di cambiamento significa che stai dichiarando pubblicamente il tuo supporto ad un problema». Certo, sarebbe ancora meglio se alla petizione seguissero sforzi più concreti, come chiamate e segnalazioni all’ufficio della figura istituzionale di riferimento, manifestazioni in strada e così via.

Non tutti sono dello stesso parere della statunitense: qualcuno, al contrario, in Change.org, oltre a non vederci niente di buono, ci trova pure del marcio. Anni fa, come ricordato dal Post, su Pagina99 il giornalista esperto di media digitali Paolo Bottazzini scriveva che la piattaforma serve a poco e in alcuni casi è pure dannosa, per via della sua natura commerciale: si tratta di «una società privata che fa profitti, contribuisce a premiare le petizioni sulla base di logiche pubblicitarie», dando in molti casi spazio a campagne poco importanti o pericolose, come quelle che chiedono di abolire l’obbligo di vaccinazione. Tuttavia in linea di massima la tendenza negli anni è rimasta quella di pensare che «niente sensi di colpa, il click è semplicemente un buon inizio», riportando le parole di Isabella Pratesi, direttrice del programma di conservazione del WWF Italia.

Che sia un inizio, siamo tutti d’accordo. Sul “buon” c’è da discutere. Negli anni le petizioni di Change.org sono cresciute fra le polemiche, nate principalmente per via dell’impero economico – legittimo, almeno dal punto di vista della legge – che la piattaforma è riuscita a mettere in piedi, sollevando qualche dubbio etico. I sospetti si sono ispessiti nel 2020, quando a giugno di quell’anno 130 ex dipendenti della piattaforma hanno pubblicato su Medium una lettera aperta di denuncia sui soldi raccolti in una petizione per George Floyd. Di seguito un estratto.

«In qualità di ex dipendenti di Change.org, scriviamo per esprimere estrema preoccupazione per la gestione da parte dell’azienda delle donazioni raccolte dalle sue petizioni #BlackLivesMatter, in particolare una con oltre 16 milioni di firme che chiedeva responsabilità per gli agenti di polizia che hanno ucciso George Floyd. La petizione chiede ai firmatari di “diventare un eroe” “partecipando”, ma queste donazioni non vanno alla famiglia di George Floyd o alle organizzazioni che lottano per la vita delle persone nere. Piuttosto, questi contributi servono a commercializzare la petizione e lo stesso Change.org tramite cartelloni pubblicitari e annunci digitali. Change.org sta sottraendo risorse alle organizzazioni che difendono la vita delle persone nere e che sono davvero ‘attrezzate’ per dare vita a un cambiamento più profondo e a lungo termine».

All’interno del documento, oltre ad alcuni moniti indirizzati direttamente alla piattaforma, gli autori scrivono tra l’altro che Change.org è una «società a scopo di lucro che dipende dalla raccolta di nuovi indirizzi e-mail per fare soldi, traendo profitto dalla morte delle persone nere».

Un’inchiesta realizzata qualche anno fa da Klint Finley, giornalista che si occupa di politica tecnologica e sviluppo software, pubblicata dall’edizione statunitense della rivista Wired, spiega che Change.org non è una società non profit, ma che al contrario ricaverebbe una grande quantità di soldi in due modi: spingendo gli utenti a fare delle ‘donazioni’ e commercializzando le informazioni rilasciate da chi firma le petizioni.

Praticamente come fa Google, con la differenza che nel suo caso tutti lo sanno ma nessuno (o quasi) si lamenta.

Partiamo dal primo punto. Quando l’utente conclude il processo di identificazione e firma, la piattaforma lo invita a versare una certa cifra (libera), perché «più donerai, più persone vedranno questa campagna». Praticamente, dietro compenso, Change.org promuove la petizione – e se stessa – mostrandola ad altri potenziali firmatari. È quello che gli ex dipendenti hanno denunciato sul caso Floyd: i soldi non supportano l’ideatore della petizione, ma sostengono un servizio.

C’è chi lo trova giusto, al fine di aiutare il sito a pagare professionisti competenti, e chi no, o meglio, chi crede che richieste simili si addicano piuttosto ad una onlus. Entrate tuttavia, a detta di Charlotte Hill, responsabile della comunicazione «reinvestite al 100 per cento nella nostra missione di dare potere alla gente normale». Secondo Clay Johnson, conosciuto come il co-fondatore di Blue State Digital, l’azienda che ha costruito e gestito la campagna online di Barack Obama per la presidenza nel 2008, sentito da Finley, le petizioni online esistono con l’unico scopo di raccogliere soldi altrove. «Credo che la gente ipotizzi che sei un’organizzazione non profit, se il tuo sito termina con ‘.org’», ha aggiunto, suggerendo, al posto di sostenere una campagna, di rivolgersi al politico di turno del proprio Paese, competente nella materia di cui si discute.

Sulla questione della privacy degli utenti della piattaforma – il punto numero due, collegato in realtà al primo – si è discusso parecchio. Tant’è che nel 2016 il Garante della privacy italiano, dopo numerosi servizi giornalistici e sollecitazioni da più fronti, ha avviato un’istruttoria sulla tutela dei diritti digitali da parte di Change.org, cercando di capire se il sito abbia mai ceduto dati personali senza il consenso esplicito delle persone. Alla fine la pratica è stata archiviata nel giro di qualche mese, poiché le spiegazioni date dalla società sono state ritenute valide, e cioè che «non vendiamo le mail, ma offriamo in modo trasparente, pubblico e legale un servizio di lead generation», un insieme di azioni di marketing che consentono di generare una lista di possibili clienti interessati ai prodotti o servizi. Certo è, e su questo non ci piove, che al momento della sottoscrizione ciascun utente, oltre a fornire una mail, inserisce sulla piattaforma il proprio nome e cognome e il codice fiscale, e che a seconda delle campagne che si sostengono, il sito memorizza quali sono i temi che più ci interessano e per cosa ci ‘scaldiamo’ – tutte informazioni utili per creare delle ‘sponsorizzazioni’ ad hoc. Sul resto Change.org rassicura: «Anche se i nostri utenti ci affidano i loro dati, noi prendiamo molto seriamente il compito di proteggerli. Non vendiamo i dati dei nostri utenti a terzi». Che ci crediamo o meno, per alcuni è un rischio che, per dell’attivismo online, vale la pena correre, soprattutto visto che pur di essere online sui social siamo disposti (consapevolmente?) a dire tutto di noi.

Un merito indiscusso però da riconoscergli c’è: negli anni Change.org ha promosso campagne importanti, come quelle per il reato di omicidio stradale. Certo, sempre a patto che al click simbolico segua la piazza, anche perché, come accennato all’inizio, affinché abbia valore legale – e riesca a raggiungere per esempio il Parlamento italiano o europeo, o il Comune d’appartenenza – una petizione online deve riportare la nostra firma digitale, che permette di certificare l’identità del cittadino («la raccolta di firme online funziona da pungolo al legislatore», come ha detto l’ex direttrice di Change.org Italia Stephanie Brancaforte).

Per chi vuole investire tempo nell’attivismo, ci sono sicuramente metodi più efficaci e concreti, per quanto simili. L’articolo 50 della nostra Costituzione ci conferisce il potere di utilizza uno degli strumenti di massima espressione della democrazia diretta, dicendoci che «tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità». A patto che questi siano domandati con firme registrate tramite mezzi tradizionali, tipo i vecchi fogli di carta e le vecchie penne.