Nuovo anno (scolastico), stesse vecchie abitudini. Almeno in Lombardia, dove Fratelli d’Italia è tornato alla carica per obbligare le scuole a vietare fra i banchi la carriera alias – quella cioè che permette alla persona che si identifica in un genere diverso rispetto a quello di nascita, e che burocraticamente ha iniziato il proprio percorso di transizione ma non l’ha ancora concluso, di chiedere di essere indicata con il “nuovo” nome, e non con quello (ancora) registrato sui documenti ufficiali.
Sul tema il partito aveva già presentato una mozione lo scorso luglio, poi ritirata e rimandata a settembre – il consiglio regionale ne discuterà infatti nelle prossime settimane. Ma, nell’attesa, meglio cominciare a farsi largo. È quello che deve aver pensato Pietro Macconi, storico consigliere regionale di Fratelli d’Italia, con un passato in Alleanza Cattolica e nel Popolo della Famiglia, mittente di una mail recapitata nella casella postale dei dirigenti scolastici lombardi.
Un messaggio con cui il politico fa principalmente due cose: annuncia la mozione – e la allega in mail – e ne spiega, dal suo punto di vista, il significato. «La richiesta al Ministero è di intervenire in ragione del contrasto alla diffusione della carriera alias nelle scuole, che desta giusta preoccupazione nelle famiglie, attesa l’innaturale ideologia volta alla fluidità di genere», scrive ai Presidi.
Una linea di pensiero che però si scontra con la realtà scolastica, sempre più aperta, inclusiva e autonoma – visto che il Ministero dell’Istruzione non ha mai dato indicazioni chiare sul tema. In Italia sono più di 200 le scuole (comprese le Università, la cui lista completa è consultabile qui) che hanno inserito la carriera alias nel proprio ordinamento, e più di venti sono proprio in Lombardia. In questi istituti chi ne fa richiesta può modificare il nome anagrafico in tutti i documenti interni alla scuola, aventi valore non ufficiale, sostituendolo con quello di elezione (cioè scelto dall’individuo).
In questo modo gli si evita «il disagio di continui e forzati coming out e la sofferenza di subire possibili forme di bullismo», come spiega l’associazione Genderlens. Motivo per cui, «vanno poi concordate altre buone prassi, fra cui l’uso di spazi sicuri (scelta del bagno, dello spogliatoio), per la/lo studente trans, poiché sono questi i luoghi in cui avvengono spesso pesanti episodi di bullismo».
Di tutt’altro parere la schiera di Fratelli d’Italia, per cui quello della carriera alias non è altro che «un capriccio che non rispetta la legge» – una dichiarazione inesatta, visto che, come già specificato, i documenti ufficiali continuano a contenere il nome anagrafico dell’individuo – «un danno per gli stessi studenti che la richiedono in quanto porta a consolidare una percezione soggettiva nella quasi totalità dei casi temporanea e risolta spontaneamente nella maggiore età» e un potenziale frutto delle «influenze che i giovani subiscono in società, sia da amici che da internet».
Illazioni che, seppur non supportate da alcuna fonte scientifica, hanno trovato accoglienza in casa delle associazioni Pro Vita&Famiglia e Generazione Famiglia (che tra l’altro nel dicembre del 2022 hanno diffidato i Presidi di 150 scuole). Gruppi che Genderlens e altre organizzazioni hanno accusato di diffondere dati statistici e scientifici inesistenti, con il solo scopo di «spargere panico morale verso le famiglie, le scuole e nella pubblica opinione».
Tuttavia va riconosciuto che chi si oppone alla carriera alias ha ragione su un punto: in uno Stato burocraticamente funzionante, non dovremmo doverle ricorrere così spesso. L’esigenza di introdurre fasi ‘intermedie’ come questa è principalmente legata alle lunghe tempistiche che chi intraprende un percorso di transizione deve affrontare. Per ottenere nuovi dati anagrafici e nuovi documenti possono infatti volerci diversi anni e l’obbligo di rispettare certe tappe prestabilite annulla anche solo l’ipotesi che si accorcino.
L’iter comincia con un primo step fatto di incontri psicologici (di almeno sei mesi). L’Osservatorio Nazionale sull’identità di Genere dice che si tratta di un periodo molto importante perché ha una doppia valenza: diagnostica e terapeutica/supportiva. La prima ha lo scopo di valutare correttamente la situazione e la “realtà” della condizione transessuale, visto l’impatto che i passi successivi possono avere sulla persona, mentre la seconda deve servire da “appoggio” alla persona per aiutarla nei momenti difficili del percorso che l’aspetta. Terminata questa fase, il percorso procede poi con il secondo ‘passo’, quello della somministrazione della terapia ormonale: questa solitamente dura per tutta la vita e consiste nell’assunzione di ormoni (femminilizzanti come ad esempio gli estrogeni o mascolinizzanti come il testosterone) che modificano le caratteristiche sessuali in modo che si allineino con l’identità di genere della persona che li assume.
È durante questo “momento” che comincia quello che viene definito “test di vita reale”, un periodo (della durata massimo di due anni) in cui la persona inizia a vivere nel mondo come persona del sesso a cui sente di appartenere, pur mantenendo ancora i suoi documenti originali. È una periodo piuttosto complicato e delicato, visto che da una parte l’aspetto esteriore e interiore dell’individuo è sempre più lontano da quanto riportato su ‘carta’ e dall’altra sempre più vicino all’identità di genere percepita. Come ha spiegato a Vice Paolo Valerio, Presidente dell’Osservatorio, «purtroppo siamo in una società che fa sì che molti di noi si vergognino, e in questo periodo la persona potrà capire se si sente in sintonia col genere percepito, affrontare più serenamente tutte le complessità che vengono con il cambio anagrafico, e anche rendersi conto che è un passo importante». Se il percorso fila liscio fino a questo punto, i professionisti che hanno seguito la persona in transizione stilano delle relazioni su di lei e sulla ‘strada’ percorsa. Questi documenti vengono poi presentati in tribunale. È quest’ultimo che ha il compito finale di rettificare – previa udienza, che potrebbe arrivare anche dopo sei mesi dalla richiesta – i dati anagrafici e tutti i documenti (patente, licenze, titoli di studio e così via). Una pratica che copre un arco di tempo variabile – in ogni caso piuttosto esteso.
Tenuto conto che «non per ogni studente è facile star bene a scuola» e soprattutto, come specificato da Genderlens, «non per chi vive tutti i giorni la sensazione di non essere conforme ad aspettative sociali e a ruoli stereotipati che non tengono conto delle differenze individuali riguardanti anche l’identità di genere», è evidente che introdurre carriere e identità alias significa in un certo senso permettere a chi ‘corre’ questa lunga maratona di rifiatare un attimo. Il rischio, altrimenti, è quello di aggravare una situazione già piuttosto critica. Rimanendo fra i banchi di scuola, i dati dicono che il 43 per cento delle persone trans tra i 12 e i 18 anni lascia la scuola prima di aver terminato gli studi.
Numeri che pesano ma non sorprendono. L’ultimo rapporto ‘Rainbow Europe’, stilato dalla International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association (ILGA) – che nella sua valutazione tiene conto, tra le altre cose, della qualità dell’iter attorno al cambio di genere e di sesso e della presenta o meno di politiche discriminatorie – colloca il nostro Paese al 22esimo posto fra i 27 dell’UE e al 34esimo sulle 49 nazioni prese in esame in tutto il mondo. Un posizionamento piuttosto deludente, considerato che «il bisogno di riconoscimento è uno dei bisogni umani primari».