Che ruolo ricoprono gli animali nelle nostre vite? Non è una domanda trabocchetto, ma sicuramente è un interrogativo al quale si tende a rispondere in maniera retorica, con la mente rivolta ai nostri cari amici domestici, cani e gatti in primis, o alla fauna nel suo complesso, come insieme di specie talmente vasto da risultare vago, indistinto, difficile persino da visualizzare.
Specie per chi vive in città, non importa si tratti di metropoli o di piccoli centri urbani, il termine “animali” rimanda a una categoria astratta che si rivela agli occhi nella forma di passerotti e scoiattoli, nel migliore dei casi, di piccioni, topi, zanzare, scarafaggi nel peggiore, comunque sia di presenze percepite come ai margini del nostro trantran quotidiano.
Questo al netto dell’irruzione dei cinghiali nelle strade romane, tanto chiacchierata proprio per la sua natura eccezionale. Eppure gli animali possono insegnarci molto, e non su di loro, ma su di noi, come mostra Massimo Zamboni nel suo Bestiario selvatico. Appunti sui ritorni e sugli intrusi, in uscita il 7 marzo per La Nave di Teseo: un libro insolito, arricchito dalle illustrazioni di Stefano Schiaparelli, che raccoglie quelle che l’autore chiama «favolette a sfondo morale», «apologhi narrativi» nati da una serie di incontri casuali o ricercati con «uccelli, mammiferi, insetti, pesci, anfibi, rettili arrivati clandestinamente nella penisola italiana nascosti nelle pieghe degli scambi commerciali, in fuga dalle guerre degli uomini, in marcia, in volo, strisciando, nuotando, approfittando dell’abbandono delle aree naturali».
Così scrive Zamboni, e le sue parole anticipano il senso di quest’opera discendente dei bestiari medioevali, ma attualissima nel mettere al centro le avventurose vicende di una folta schiera di organismi alloctoni, non originari delle terre che abitano, protagonisti di migrazioni di cui non ci accorgiamo se non quando arrecano fastidio alle nostre esistenze. Vedi i succitati cinghiali.
Operazione inusuale, quella messa in piedi dallo scrittore emiliano, chitarrista e cantautore già nei CCCP/CSI, che in circa 200 pagine racconta «un movimento di massa che sfugge all’occhio collettivo», in realtà costantemente in divenire, come una musica di sottofondo sempre accesa, ma proveniente da una fonte troppo distante per poterla udire. Guidati dalla sua penna elegante e raffinata ci troviamo così al cospetto di un castoro solitario che ha trovato sorprendentemente rifugio sui monti di Tarvisio dopo cinque secoli (500 anni!) di assenza della sua specie dal suolo italiano, senza alcun intervento umano. E poi di una tartaruga palustre americana, esemplare di una razza che ha invaso da decenni stagni e corsi d’acqua ferma, vittima della noia di genitori e bambini che obbedienti a qualche moda si erano convinti che con quella testuggine nell’acquario si sarebbero divertiti un sacco, e invece no.
Piccolo problema: trattandosi di specie invasiva, sono scattati piani ministeriali di controllo che ne perseguono l’eradicazione. O ancora, nell’istrice, roditore che con la sua cresta di aculei pare uscito da un film di fantascienza, importato nell’antichità dal Nord Africa per motivi gastronomici, oggi abitante dell’Appennino e incubo di tutti i contadini o di chiunque abbia un orto, visto che il nostro è ghiotto di radici, bulbi e patate.
Sono solo tre esempi pescati tra le tante storie di animali che Zamboni narra da osservatore privilegiato, sia perché a giudicare da ciò che si legge le ricerche preparatorie alla scrittura devono averlo intrigato e pure divertito parecchio, sia per la sua scelta di vivere in una casa-fattoria nelle colline reggiane, proprio in Appennino, dove gli istrici si godono le notti, per incrociare un capriolo o una volpe basta fare due passi tra prati e boschi e dove sentire parlare di ritorno del lupo con l’angoscia di chi teme per le proprie pecore è da tempo un accadimento all’ordine del giorno.
Sono pochi esempi, si diceva, però adatti a far comprendere ciò che lo scrittore desidera suggerire con queste sue novelle poeticamente etologiche. Ossia che esistono animali migranti, costretti, di eo epoca in epoca, ad abbandonare i loro lidi perché a caccia di condizioni climatiche migliori, perché in fuga da guerre e disastri nucleari, perché qualcuno ha deciso di tramutare le lande dove si erano stabiliti in mete turistiche oppure, più semplicemente, perché trasportati inconsapevolmente da un posto all’altro nelle nostre valigie di viaggiatori e nei container zeppi di merci globalizzate.
Di pagina in pagina l’ex CCCP/CSI, alle spalle una decina di libri pubblicati tra cui L’eco di uno sparo e La trionferà, ci rammenta che ci sono animali clandestini che dopo aver camminato, volato o nuotato per distanze che nemmeno riusciamo a immaginare approdano senza saperlo dove non sono graditi, diventando loro malgrado vittime di una persecuzione forsennata che può prevedere l’importazione di un antagonista che li faccia estinguere una volta per tutte. Così come non mancano animali che per un periodo sono stati ben accolti in una data terra perché ottimi per cucinare manicaretti o confezionare pellicce e che d’un colpo si sono ritrovati bollati come inutili, fino a morire per opera di una fucilata opportunista o, peggio, di qualche strage di massa programmata.
Unendo la passione del naturalista e lo sguardo dell’artista che si allunga oltre la superficie delle cose, Zamboni riesce a trasmettere la forza inarrestabile di tutto questo viavai di bestie selvatiche, nel mezzo del quale c’è l’essere umano che seleziona chi è benvenuto e chi no, che dall’alto della posizione di essere pensante e dominante che si è auto-assegnato sceglie chi ha diritto a restare e chi dev’essere ucciso o deportato.
E che talvolta arriva persino a provocare guerre ad hoc, per salvaguardare le specie che possono fargli comodo e portare alla scomparsa quelle che minano le sue fonti di cibo o la sua sicurezza. «Come altro potrebbe essere?», dirà qualcuno. Non servono a nulla le risposte semplicistiche, né Zamboni le cerca: abitiamo la complessità. Il punto è non dimenticarlo, non comprimere la stessa in visioni ideologiche e, semmai, riconoscere quanto, in questa nostra presunzione antropocentrica di poter regolare e controllare l’universo a nostro piacimento, ci è sfuggito qualcosa: rispetto al mondo animale l’umanità è infinitamente più fragile e vulnerabile, in modo particolare l’umanità contemporanea, viziata e dipendente com’è da quantità enormi di oggetti di consumo e dalle comodità garantite dalla vita moderna.
Su tale terreno non è nemmeno necessario discorrere di crisi climatica e riscaldamento globale: i deboli siamo noi qui e ora, e che miseria credere il contrario, e soprattutto decidere di contrastare le migrazioni che hanno visto, vedono e inevitabilmente vedranno le popolazioni dei diversi continenti spostarsi da una regione del pianeta all’altra, innescando in questo modo conflitti senza fine e tragedie come il naufragio che lo scorso 26 febbraio ha causato la morte di uomini, donne e bambini a pochi metri dalla costa calabrese.
Da questo punto di vista il Bestiario selvatico di Zamboni è uno di quei libri da tenere sul comodino e (ri)aprire di tanto in tanto per costringerci a riflettere su quanto da lui suggerito con la sua prosa evocativa, distante dal didascalismo di chi pretende di spiegare. Le sue metafore, allegorie e similitudini ci spingono a interrogarci sulla nozione stessa di identità, sul suo fondamento, sul suo correlarsi all’esistenza dell’altro da sé, dello straniero, del forestiero, del diverso. Per non smarrirci nel disumano.