Chiunque nutra un minimo di interesse verso l’informazione nostrana dovrà, per forza di cose, scendere a patti con una triste realtà: viviamo in un Paese in cui la malapolizia rappresenta un tratto endemico, quasi costituzionale. Nei nostri lidi, complici anni di corporativismo e lasseiz faire, gli abusi in divisa sono un problema serissimo, un ritornello (troppo) costante delle cronache giudiziarie.
Anche gli aficionados più radicali dell’ordine e della disciplina non hanno alcuna possibilità di smentire questo assunto, dato che il campione di esempi a nostra disposizione, ahinoi, è parecchio esteso. Viviamo nel Paese in cui il G8 di Genova ha aperto una cesura nella memoria collettiva, lasciandoci in eredità il marchio d’infamia della «più grande sospensione dei diritti umani in un Paese occidentale dai tempi della seconda guerra mondiale», con le istantanee della morte di Carlo Giuliani e della trasformazione della Diaz in una «macelleria messicana» a riecheggiare incessantemente nelle nostre menti, portati più visibili di un trauma collettivo mai processato del tutto.
Che dire, poi, delle violenze contro i detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, che il giudice per le indagini preliminari Sergio Enea ha definito senza troppe esitazioni come «una orribile mattanza» – il processo si sta celebrando in questi giorni: per le torture ai danni dei reclusi sono imputate 105 persone, tra agenti e funzionari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ieri i senatori del Partito Democratico Filippo Sensi, Walter Verini e Alfredo Bazoli hanno presentato un’interrogazione parlamentare sulla decisione della corte d’assise di Santa Maria Capua Vetere di bloccare la pubblicazione delle registrazioni del dibattimento sulle violenze avvenute in carcere in quel terrificante 6 aprile del 2020, trasmesse da Radio Radicale.
E poi c’è la data che ha cambiato tutto e sensibilizzato l’opinione pubblica come non mai: il 15 ottobre 2009, la serata in cui Stefano Cucchi, un geometra 31enne, fu fermato dai carabinieri Francesco Tedesco, Gabriele Aristodemo, Raffaele D’Alessandro, Alessio Di Bernardo e Gaetano Bazzicalupo dopo essere stato trovato in possesso di pochi grammi di hashish. Il giovane fu chiuso in una cella di sicurezza in seguito alla convalida per l’arresto emessa il mattino seguente dal tribunale. In carcere fu pestato e sottoposto a un’umiliazione in piena regola: le percosse provocarono la rottura di due vertebre, come accertato ai tempi dallo staff medico del Regina Coeli e del Fatebenefratelli. Il giorno dopo, durante il processo per direttissima, le gravi contusioni presenti sul corpo di Stefano – che, prima dell’incontro con i carabinieri, non presentava alcun trauma fisico – passarono inspiegabilmente in secondo piano. A causa del peggioramento delle sue condizioni, fu trasferito al reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini, dove morì all’alba del 22 ottobre: al momento del decesso pesava appena 37 chili, consegnando ai posteri la tremenda istantanea di un corpo distrutto e vilipeso fino all’inverosimile da quello stesso Stato che avrebbe dovuto assumersi l’onere di proteggerlo.
Per semplicità di analisi ci fermiamo qui, ma potremmo continuare a lungo (in ogni caso, per chi volesse approfondire, è sufficiente digitare su qualsiasi motore di ricerca questi nomi per avere idea di quanto il problema della violenza di stato sia pervasivo: Davide Bifolco, Giuseppe Uva, Marco Guerra, Riccardo Magherini, Aldo Bianzino, Kayes Bohli, Federico Aldrovandi, Cristian De Cupis, Stefano Cabiddu).
Date le premesse, la legge 14 luglio 2017, n. 110 ha rappresentato un risultato importantissimo, introducendo nel Codice penale italiano i reati di tortura e di istigazione del pubblico ufficiale alla tortura, rubricati sotto gli articoli 613-bis e 613-ter: la norma che ha uniformato il codice italiano a quelli di tutti gli altri paesi civili. Un traguardo che dobbiamo, in primis, all’infaticabile lotta di Ilaria Cucchi, che non ha mai smesso di agire in concreto per infrangere il muro di omertà che rischiava di insabbiare uno dei casi di malapolizia più gravi della storia italiana recente, sopportando insulti, insabbiamenti e dietrologie di ogni tipo.
Il governo Meloni sta pianificando di azzerare tutti i frutti di un processo di maturazione importantissimo, che ha giovato alla società nel suo complesso. Ieri, infatti, siamo venuti a conoscenza dell’assegnazione in Commissione Giustizia della Camera di una proposta di legge, targata Fratelli d’Italia, che vuole abrogare questo traguardo di civiltà. Il motivo? Tutelare l’onorabilità della polizia (come se l’esistenza di una norma potesse ledere la reputazione di un corpo, non gli atteggiamenti e gli abusi di chi lo compone).
Le argomentazioni che i post–missini stanno mettendo in campo per legittimare questo scempio trasudano provincialismo da tutti i pori. Ad esempio, il capogruppo dei meloniani della Camera, Tommaso Foti, sostiene che il reato vada abolito perché «C’è il rischio che le forze dell’ordine debbano guardarsi dai delinquenti».
Per la destra, l’abolizione della legge n. 110 è un obiettivo dichiarato da tempi non sospetti: nel luglio 2018, un anno dopo l’entrata in vigore della legge, Meloni aveva detto che per via della sua introduzione «gli agenti sono stati mortificati» e non possono svolgere in serenità loro lavoro perché è sufficiente un «insulto per rischiare pene fino a 12 anni».
Una linea che, per forza di cose, corrisponde alla volontà di accontentare i sindacati di polizia che rivendicano l’utilizzo del pugno di ferro come garanzia di ordine. Lo ha spiegato bene Ilaria Cucchi: «Chi sostiene che gli agenti con il reato di tortura non possano lavorare sta facendo una grandissima offesa alla stragrande maggioranza delle forze dell’ordine che quotidianamente svolgono il loro lavoro anche senza bisogno di picchiare».