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Domenico Quirico sulla guerra in Ucraina: «Gli Stati Uniti non sanno più distribuire le carte nel mondo»

Mentre gli attacchi russi si stanno intensificando, abbiamo intervistato il reporter di guerra per parlare dei nuovi equilibri di forza che stanno ridefinendo la geopolitica e il nostro modo di concepire i conflitti

Foto di Thomas Samson/AFP via Getty Images)

Antiochia, 240 dopo Cristo, la crisi totale dell’impero romano. Ammiano Marcellino racconta che tutti gli abitanti della città quella sera erano a teatro e stavano seguendo con attenzione uno spettacolo. A un certo punto però un attore si interrompe, guarda in alto, è paralizzato. Indica poi qualcosa alle spalle degli spettatori. Tutti si voltano. Sulla gradinata più alta del teatro ci sono gli arcieri di re Sapore con le frecce pronte a scoccare dall’arco, puntate addosso a tutta la popolazione di Antiochia. «Noi siamo forse in una condizione simile. Guardiamo lo spettacolo teatrale con molta attenzione mentre gli arcieri di re Sapore sono già lì dietro», così ha risposto Domenico Quirico, reporter di guerra e giornalista de La Stampa alla domanda: «Ma l’Occidente che ruolo ha all’interno della questione Ucraina?».

L’attacco russo diventa il pretesto per riflettere sul rapporto tra noi e la guerra, sui nuovi equilibri di forza che stanno ridefinendo la geopolitica, e sul futuro, perché ci sarà un prima e un dopo 24 febbraio.

Credevamo che in Europa non potessero più esserci guerre e invece…
L’Ucraina è stata attaccata, e da Trieste a Kiev mi sembra ci sia un’ora di aereo. Forse addirittura meno. Siamo abituati a pensare che in Europa le guerre non siano più possibili, che siamo arrivati a un mondo migliore, e che appartengano solo a quelle zone più arretrate, primitive, fanatiche. Pensavamo fosse tutto una finta.

La crisi ucraina ha messo in luce la relazione difficile che c’è tra l’Occidente e la guerra. Cosa evidenzia questa vicenda su come noi europei affrontiamo e viviamo i conflitti bellici?
Dice molte cose. Io spesso mi trovo in difficoltà a raccontare, a spiegare cosa vuol dire vivere in una città dove c’è la guerra. Per due terzi del mondo è qualcosa di concreto, sanno cosa vuol dire essere bombardati, non poter uscire di casa, stare nei rifugi, non avere cibo, avere paura che qualcuno ti ammazzi quando esci di casa. Tutto quello che la guerra è. Noi viviamo invece in un mondo che ci sembra abbastanza perfetto e nella nostra ottusità di soddisfatti fatichiamo a concepire la guerra come elemento reale.

C’è anche un elemento post storico.
Certo che sì. Ci sentiamo in un pianeta a parte, in cui certe cose non possono succedere.

È una questione di percezione. Quali sono le origini di questa distanza?
Ci sono generazioni che non hanno mai conosciuto la guerra in modo diretto, e hanno difficoltà a comprendere quanto sia terribile. Noi abbiamo vissuto la guerra al cinema ma anche la guerra televisiva, quella vera, noi la leggiamo come una guerra cinematografica, non riusciamo ad andare oltre l’immagine. Questo è il problema: se non hai esperienza di una cosa o non ci credi o credi che non sia possibile. Quando invece la guerra è sempre presente.

Una conseguenza anche del nucleare?
Certo. Noi siamo cresciuti in un mondo in cui la guerra non era concepibile perché tutti si sono resi conto che se ci fosse stata sarebbe avvenuta una catastrofe. Il deterrente nucleare però non ha impedito la guerra, anzi, non ci sono mai state tante guerre come quando non era possibile farle per l’equilibrio del terrore, della bomba. Si pensi al Vietnam, alla Siria, all’Iraq, all’Afghanistan. Quante situazioni storiche, politiche, geopolitiche sono cambiate da quando non si poteva più fare teoricamente la guerra? Ma quella guerra.

Quella su larga scala.
Sì, ma la guerra si adatta, e dal momento in cui quel tipo di conflitto, quello su larga scala è diventato impossibile, le altre guerre invece sono diventate ancora più possibili, perché si partiva dal principio che gli attori principali non sarebbero intervenuti direttamente. Quindi i conflitti sono diventati qualcosa che non fa così paura, perché non c’è il pericolo che una bomba atomica ci spazzi via.

Ma il caso dell’Ucraina è diverso.
Questa volta si confrontano direttamente due potenze nucleari. Hanno scelto di arrivare fino a questo punto. Può succedere di tutto, basta niente. Il dottor Stranamore, il film di Kubrick, è oggi attualissimo. E non solo i russi, anche gli americani hanno premuto molto facendo dichiarazioni forti. Sembrava che l’Ucraina fosse il loro problema principale. Ma questo è il dopo Afghanistan…

In che senso?
Eh, l’Afghanistan, ha fatto cadere un velo, ha svelato una cosa: la debolezza americana. Una debolezza strutturale, intrinseca. Gli Stati Uniti non sono più in grado di distribuire le carte nel mondo. Altri hanno buoni mazzi di carte, si pensi alla Cina, agli jihadisti. L’Afghanistan ha cambiato le carte in tavola, le ha cambiate in modo radicale. Gli effetti saranno come i cerchi concentrici che si allargano quando butti una pietra nell’acqua. Effetti che diventano sempre più grandi. C’è gente che ha ragionato sulla sconfitta americana, sui limiti di intervento degli Stati Uniti, anche in quei casi in cui sarebbe necessario fermare gli appetiti di qualche dittatore. E quindi fanno delle prove.

Per ora si sono fermati alle sanzioni.
È l’idea economicista del mondo: se chiudono la banca siamo morti. Ma questo può anche essere vero per noi, che ogni mattina dobbiamo necessariamente monitorare le azioni in borsa. Ma c’è un’altra parte di mondo a cui non interessa, e quindi sanzioni del genere non provocano l’effetto desiderato. Si guardi all’Iran. A cosa sono servite le sanzioni? Il Paese ha rinunciato a costruire la bomba atomica, si, ma gli ayatollah non sono stati cacciati via, come non è stato costruito un Iran democratico. Le sanzioni non funzionano, ci sono mille modi per aggirarle e spesso siamo noi i primi a farlo per interessi personali. Quelle che stanno adottando sono persino sanzioni light. Il fatto che le democrazie occidentali discutano se escludere o meno la Russia dal sistema Swift, è ridicolo.

Quindi le ultime guerre raccontano un equilibrio geopolitico che sta cambiando?
Secondo me si, in fondo gli occidentali hanno perso tutte le guerre che hanno fatto, anche quelle che apparentemente avevano vinto. Penso all’ Iraq, in realtà si è trasformata in una sconfitta perché hanno dovuto ritirarsi. Un’altra cosa che dico sempre: Bin Laden ha vinto la sua guerra contro gli americani. Anche se è finito in fondo al mare non si sa bene dove, in realtà ha vinto lui. Perché è riuscito a infilare in profondità questo tarlo del terrorismo che ci erode le basi.

L’Unione Europea come si posiziona in questo scenario?
Non conta nulla. E in secondo piano perché nello scenario globale si stanno ricostruendo situazioni di pura forza. Per esempio il successo della Russia in Africa e in Medio Oriente è dovuto al fatto che usa la forza in modo spregiudicato, senza farsi troppi problemi. Questa è una situazione molto pericolosa, perché come dicevo prima a noi manca questa idea, non concepiamo la guerra come reale e quindi siamo impreparati.

E poi manca una difesa comune europea.
Si, non abbiamo un esercito, e all’interno di questi rapporti di forza chi non ha un esercito non ha potere. Ma non è solo una questione di essere o meno una potenza militare, è necessario anche sapere usare la forza. Gli Stati Uniti, per esempio, hanno un potenziale enorme, centinaia di basi militari in tutto il mondo. Spendono miliardi di dollari in armamenti che poi vanno ad alimentare per lo più un’economia interna americana, perché poi li esportano. È una sorta di riflesso pavloviano, abbiamo le armi e le teniamo lì. Il punto è che se non sei disposto ad usare la forza, è come se non l’avessi.

Un discorso che non vale per la Russia. Qual è il suo obiettivo?
Difficile stabilire i disegni Putin, sta provando a vedere, all’interno di quella frontiera che nessuno può superare, quella del confronto atomico, quali sono i suoi margini di manovra. Oggi tutti dicono che è un pazzo, ma io credo che sia una persona iper razionale nella sua determinazione feroce, e sta cercando di capire fino a che punto può spingersi. Come direbbe Cavour, sta sfogliando il carciofo per vedere se può arrivare al nocciolo. Senza la bomba atomica sarebbe lo stesso scenario del ‘39.

Quindi da un lato il suo è uno sforzo muscolare, dall’altro però c’è anche una visione strategica.
Sì, l’idea di guadagnare spazio per avere tempo. Un’idea antica di guerra, ottocentesca, napoleonica. La necessità di avere “terre vuote” dove si fa la guerra. Così se gli altri ti attaccano hai il tempo di organizzarti. Putin ha bisogno che gli occidentali rimangono a 400 chilometri di distanza. Quella che è un po’ anche la sindrome di Israele. Perché ha tante guerre? Perché in due ore un carro armato lo attraversa tutto e un aereo lo sorvola in un minuto. E l’ossessione di non aver lo spazio per respirare. Questa è un’idea vecchia, ma per i russi funziona ancora.

Ci sarà un prima e un dopo 24 febbraio?
Si. Ma in realtà il momento chiave è stato quando Putin ha firmato la dichiarazione di indipendenza del Donbas. Quello è stato l’atto, e gli atti segnano il passaggio tra il prima e il dopo. Infatti è seguita subito dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Da quel momento lì, ha riconosciuto la regione come indipendente, in qualche modo lo stesso Putin è stato costretto a seguire una strada che non aveva più vie d’uscita.

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