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E Di Maio disse: «Beppe, I’m gonna leave you». Lista di gaffe indimenticabili di un ‘traditore’ a 5 stelle

In occasione del divorzio dal Movimento 5 Stelle, ecco una ricognizione di alcuni momenti indelebili di Giggino da Pomigliano: dall'abolizione della povertà al tentativo di impeachment a Mattarella, dalla 'lobby dei malati di cancro' alla cancellazione della Rivoluzione Francese

Foto di Alessandra Benedetti - Corbis/Getty Images

Per carità, non fidatevi di Antonello Venditti: mettetevelo in testa, certi amori finiscono, e finiscono pure malissimo. Lo ha dimostrato la serata di ieri, l’atto conclusivo ideale di lunghe notti bianche all’insegna schermaglie, tatticismi, reciproche accuse e malelingue sempre pronte a dare la caccia al traditore di turno; alla fine, infatti, è successo l’imponderabile: Luigi Di Maio ha dato il benservito al Movimento 5 Stelle. Nella conferenza stampa organizzata ad hoc per rendere l’addio di dominio pubblico, il ministro degli Esteri ha parlato di una «scelta sofferta» ma obbligata, dettata dalle ambiguità pentastellate sui temi caldi dell’agenda politica – guerra in Ucraina e sostegno militare all’esercito di Kiev su tutte – e dalla necessità di difendere i le virtù occidentali – «Sostenere valori europeisti e atlantisti – ha precisato –non può essere una colpa».

Ci sarà tempo per indagare nel profondo le reali motivazioni alla base del congedo dell’ex capo politico del Movimento 5 Stelle – riassumendo: l’intransigenza dell’area vicina a Giuseppe Conte, quella nostalgica e desiderosa di recuperare l’indirizzo originario del partito, sul limite dei due mandati ha giocato un ruolo chiave; del resto, Di Maio è un ricco e privilegiat(issim)o giovanotto di appena 36 anni, ama sguazzare nel compromesso ed è un trasformista dal talento sopraffino. Ergo: non vuole rischiare di rimanere disoccupato. Una scelta che, non stessimo parlando del fautore della retorica dell’onestà, del fomentatore dell’indignazione popolare per antonomasia, sarebbe quasi comprensibile; e invece no, si tratta di Di Maio, quindi possiamo tranquillamente associare questo divorzio politico a una vigliacca ipocrisia da quattro soldi («il privilegio è brutto solo quando non è il mio», direbbe Gigi da Pomigliano. Ne avevamo scritto appena due giorni fa).

In attesa di ulteriori sviluppi, ripercorriamo i 5 momenti più iconici dell’esperienza di Di Maio tra le fila del Movimento 5 Stelle, partendo dal più surreale in assoluto.

L’imbarazzante tentativo di impeachment a Mattarella

Nel 2018, l’Italia viveva una fase di transizione delicatissima: la consacrazione elettorale del Movimento 5 Stelle e la crescita insperata della Lega crearono i presupposti per la creazione del governo più a destra dell’intera storia repubblicana, quello “giallo-verde”, e di un programma politico all’insegna della xenofobia, dell’euroscetticismo e delle più classiche delle promesse da marinaio. In quelle settimane difficili, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella dovette subire la rabbia cieca di Luigi Di Maio (quello populista e anti-élite del 2018, che fa quasi sorridere se rapportato al Di Maio camaleontico e democristianeggiante dei giorni nostri), che non prese di buon grado la scelta del presidente di respingere la nomina di Paolo Savona, economista conservatore di vecchia fama e acceso sostenitore dell’uscita dell’Italia dall’Euro, a Ministro dell’Economia. Il Movimento giunse addirittura a chiedere a gran voce la messa in stato d’accusa del Presidente (una procedura mai attuata finora), che rispose con l’unico reazione possibile: un elegante silenzio stampa. Del resto, mettetevi per un secondo nei panni del Capo dello Stato: un ex giudice costituzionale, nonché docente di diritto parlamentare per lunghi anni, non ha certo bisogno di farsi spiegare la Costituzione dal primo Luigi Di Maio che passa. E vabbè, abbiamo visto pure questa.

La «Lobby dei malati di cancro»

Era il 2016, Di Maio si era già iscritto negli annali della storia parlamentare come il più giovane viceministro della Camera dei Deputati di sempre e il termine «lobby» non era ancora stato sdoganato nel linguaggio comune; quella sinistra parola anglofona era ancora in grado di generare dei veri e propri incubi in una porzione di opinione pubblica arrabbiata e affamata di cambiamento, che al tempo riusciva a connotarla unicamente in negativo, spesso associandola a congiure sotterranee: illuminati pronti a tramare nell’ombra, cardinali omosessuali machiavellici che progettano di abbattere il papato dall’interno, logge massoniche deviate che puntano a far scomparire l’olio extravergine d’oliva dalle nostre tavole, alieni capaci di dettare le linee guida della politica estera americana e chi più ne ha più ne metta, una lobby per ogni stagione. Al tempo Di Maio, finito nel mirino dei suoi sostenitori dopo un incontro con una società di lobbying italiana (scacco matto, lobbista!) che aveva elaborato uno studio sui primi tre anni in Parlamento del Movimento 5 Stelle, dovette fare di tutto per spegnere il fuoco delle polemiche e, a parole sue, provare a spiegare che, ebbene sì, esistono anche lobby “oneste” che agiscono in concreto per ottenere risultati postivi. La soluzione? Ovviamente, un post su Facebook scritto malissimo e, come dire, un pelino fraintendibile. Nel passare in rassegna tutte le lobby esistenti sulla faccia della Terra, infatti, l’ei fu capo politico dei Cinque Stelli ebbe l’ardire di citare anche quella… dei malati di cancro. «Esiste la lobby dei petrolieri e quella degli ambientalisti, quella dei malati di cancro e quella degli inceneritori – scrisse candidamente Di Maio – Il problema è la politica senza spina dorsale, che si presta sempre alle solite logiche dei potentati economici decotti». Travolto dalle stilettate degli oppositori politici, il buon Luigi provò subito a correggere il tiro:  «In Parlamento ci sono portatori di interessi negativi, come quelli degli inceneritori, e portatori di interessi positivi, come quelli appunto delle associazioni dei malati di cancro, che devono poter dialogare con le istituzioni affinché il Parlamento approvi leggi a favore del loro diritto alla salute». Intento divulgativo positivo, riuscita pessima; ma lo premiamo per lo sforzo.

L’abolizione della povertà

Tra i momenti più epici della “Dimaiede”, un posto privilegiato è da riservare, per forza di cose, all’indimenticabile «discorso dal balcone». Il 29 settembre del 2018, Di Maio si affacciava dal davanzale di Palazzo Chigi per urlare a squarciagola alla folla riunita in piazza Colonna quello che, di lì a breve, sarebbe diventato lo slogan facilone di un’intera stagione politica. Quattro parole difficili da dimenticare: «Abbiamo abolito la povertà». Un annuncio talmente demagogico, grottesco, disancorato dalla realtà e di cattivo gusto da generare un senso di sconforto e vergogna anche nel più populista tra i leader populisti. Non a caso, ha finito per vergognarsene anche lo stesso Di Maio che, in un’intervista concessa al Fatto Quotidiano due anni e mezzo dopo, mise in campo un minimo di amor proprio e fece marcia indietro: «Cosa cambierei se potessi tornare indietro? L’annuncio dal balcone dopo aver ottenuto il reddito di cittadinanza. È vero, era una battaglia a cui tenevamo moltissimo, ma un uomo delle istituzioni non si comporta così». E già, proprio no.

Pinochet, la ‘tradizione democratica millenaria’ della Francia e il «presidente Ping»

Nell’intricato romanzo postmoderno che è la parabola politica Di Maio, gli scivoloni compiuti in tema di politica estera sono talmente copiosi da meritare un dispositivo narrativo a parte, un po’ come accade con le oltre 200 note di Infinite Jest. Per comodità di analisi, ne scegliamo solo tre: il primo, quello più iconico, è senza dubbio l’incidente diplomatico con la Francia seguito al famoso incontro che l’allora viceministro intrattenne con i gilet gialli nel febbraio del 2019 – una mossa che, tra le altre cose, spinse l’Eliseo a richiamare il suo ambasciatore a Roma. Una volta resosi conto dell’intrigo internazionale scatenato dal suo coup de théâtre, Di Maio provò a metterci una pezza. Come? Semplice, scelse di spiegare al governo e ai cittadini d’Oltralpe il perché di quel summit attraverso una lettera pubblicata sul quotidiano Le Monde, in cui incensava la Francia, considerandola «un punto di riferimento per la sua tradizione democratica millenaria». Tralasciando il fatto che è abbastanza improbabile che un Paese, uno qualsiasi, abbia una «tradizione democratica millenaria» – per molti è difficile anche averne una “centenaria” – l’ex capo politico del Movimento 5 Stelle sembrava aver dimenticato che in Francia è scoppiata, correva l’anno 1789, una rivoluzione che ha sancito la fine della monarchia di Luigi XVI e di Maria Antonietta. Un’altra gaffe kafkiana risale al settembre 2016: in un post su Facebook, Di Maio si scagliò apertamente contro il premier di allora, Matteo Renzi, paragonandolo ad Augusto Pinochet. Ma, nella prima versione del post, Di Maio collocò il regime del generale in Venezuela anziché in Cile – purtroppo, la correzione giunse dopo pochi minuti, quando oramai era già troppo tardi. Due anni dopo fu la volta del clamoroso inciampo in Cina: avvenne a Shanghai, in occasione dell’International Import Expo, quando, in veste di ministro dello Sviluppo economico, il nostro eroe affermò di avere «ascoltato con molta attenzione il discorso del presidente Ping», storpiando in maniera evidente il nome di Xi Jinping, uno degli uomini più potenti del mondo. Un trittico di figuracce estere che ha segnato per sempre l’immagine pubblica di Di Maio.

Lo schiaffetto correttivo di Matteo Salvini

Come dimenticare la sindrome di Stoccolma che, durante la breve parentesi del governo gialloverde, portò Di Maio a innamorarsi perdutamente del proprio carnefice, Matteo Salvini, ora graziandolo dal processo per il sequestro dei migranti della nave Diciotti, ora subendo delle clamorose sconfitte sui temi caldi della propria campagna elettorale (Tap, Tav e Ilva)? Nel confronto con la sua controparte leghista, Di Maio finì per fare la figura del dilettante allo sbaraglio: in appena 14 mesi, il leader del Carroccio ridimensionò il Movimento 5 Stelle al di sotto del 20% nei sondaggi, assestando un primo, durissimo colpo al potenziale elettorale della creatura made in Beppe Grillo & Casaleggio Associati e chiarificando una volta per tutte che, sì, l’impressione era quella giusta: Di Maio stava affrontando un compito decisamente più grave di lui. L’inizio di una colata a picco verso bassezze sconosciute che, a ben guardare, continua la sua discesa ancora oggi.

Bonus track: l’incontro con Michael Bolton (che, però, era John)

«A 24 ore dalla firma della Via della Seta partii alla volta di Washington, la mia prima visita ufficiale negli States. Arrivai alla Casa Bianca in veste di ministro dello Sviluppo economico e un po’ mi sorprese: era assai più piccola di come me la immaginavo, Mi accolse Michael Bolton, consigliere per la sicurezza di Trump», scrive Di Maio nel suo ultimo libro, Un amore chiamato politica. Solo che, ovviamente, Di Maio non ha incontrato il celebre cantautore americano, ma John Bolton, il consigliere per la sicurezza di Trump. Del resto, un libro di Luigi Di Maio senza qualche refuso da Oscar non sarebbe un libro di Luigi Di Maio.

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