È morto Cesare Romiti. Lo storico dirigente della FIAT aveva compiuto 97 anni in giugno. Romiti non è stato solo il braccio destro di Gianni Agnelli, ma uno dei grandi protagonisti della storia del capitalismo italiano prima in FIAT e poi, a cavallo fra anni ’90 e 2000, nel gruppo RCS.
Nato a Roma nel 1923, figlio di un impiegato delle Poste, si laurea in economia. Nei primi anni ’70 è direttore generale e amministratore delegato di Alitalia. Diventa amministratore delegato della FIAT con Umberto Agnelli e Carlo De Benedetti nel 1976 in un periodo caldissimo a causa della crisi petrolifera. Il grande scontro con i sindacati e con il PCI, allora guidato da Enrico Berlinguer, risale all’autunno 1980. Un duro braccio di ferro segue l’annuncio del licenziamento di oltre 14 mila operai. La produzione a Mirafiori si ferma. Lo stallo è sbloccato dalla cosiddetta marcia dei quarantamila che in ottobre porta in strada impiegati e quadri dell’azienda, simbolo della frattura fra operai e colletti bianchi. Trent’anni dopo, Romiti ha detto a Repubblica che quello scontro ha avuto il merito di «riportare i sindacati di allora a una situazione di normalità, superando le infiltrazioni terroristiche che stavano nella loro base».
Rimasto in FIAT negli anni ’90 grazie all’appoggio di Enrico Cuccia di Mediobanca e nonostante il parere contrario di Gianni Agnelli, Romiti ne esce nel 1998 dopo essere diventato presidente del gruppo. Ma per allora, come ha detto Agnelli, la festa era finita e la quota di mercato della FIAT era drasticamente calata. Dopo l’esperienza nella casa automobilistica, dal 1998 al 2004 Romiti è stato presidente di RCS e in seguito di Impregilo. Ha affrontato l’inchiesta Mani Pulite: la condanna in Cassazione nel 2000 per finanziamento illecito ai partiti è stata revocata nel 2003 dalla Corte d’Appello di Torino.
Ha detto al Sole 24 Ore nel 2009: «Può darsi che un bravo manager non sia anche un bravo padrone. Può darsi. Ben vengano tutte le critiche. Ma io non ho mai accettato quello che i cosiddetti padroni hanno accettato in tanti anni di vita industriale del Paese. L’essere accomodanti, cosa che ha portato gente di qualità mediocre a occupare posti importanti. Ma ha anche portato il Paese nelle condizioni disperate in cui si trova ora».