Da quando, lo scorso 24 febbraio, Putin ha deciso di alzare il livello dello scontro, dando il via all’invasione russa dell’Ucraina e riagitando lo spauracchio della guerra in Europa, diversi analisti hanno iniziato a sollevare qualche dubbio sull’effettivo stato di salute mentale del leader del Cremlino.
Una narrazione che si pone in antitesi con quella propagandata negli ultimi anni, che ha spesso presentato il presidente russo come un leader astuto e raffinato, il freddo calcolatore capace di anticipare le mosse degli avversari sullo scacchiere internazionale e, al contempo, reprimere il dissenso in patria senza mettere a rischio la sua stabilità e quella del suo establishment di potere. Eppure, nelle ultime settimane, l’aggressione dell’Ucraina sembra essersi trasformata nella parte scoperta della sua cotta di maglia, quella dove può essere affondata più facilmente la spada.
Ad esempio, un articolo pubblicato dal Guardian ha evidenziato come, negli ultimi mesi, la tendenza di Putin alla solitudine e all’isolamento sociale – un suo tratto distintivo da sempre che, però, è stato ulteriormente accentuato dagli sviluppi della pandemia da coronavirus – abbia vissuto un salto di qualità, sino al punto che, allo stato attuale, Putin vivrebbe «scollegato dal mondo contemporaneo» e preferirebbe «scavare nella storia e nella sua ricerca personale della grandezza», trascorrendo gran parte del suo tempo circondato da un gruppo di lealisti obbedienti e perfettamente allineati alla sua visione geopolitica – i cosiddetti “siloviki”, di cui abbiamo scritto qualche giorno fa su Rolling Stone.
Inoltre, sebbene sia impossibile conoscere il vero stato d’animo di Putin, chi ha seguito da vicino il comportamento del leader russo è stato colto in contropiede dalla natura bizzarra e oscura dei suoi recenti discorsi, come ad esempio quello in cui ha descritto la classe dirigente ucraina come una «banda di tossicodipendenti e neonazisti». Dello stesso avviso anche Sam Greene, direttore del Russia Institute al King’s College di Londra, che ha espresso qualche perplessità in merito alle recenti prese di posizione di Putin – «la difficoltà che sto incontrando analiticamente è che non so come farei a distinguere tra un Putin completamente pazzo e un Putin che concepisce il mondo in un modo troppo diverso dal mio», ha dichiarato in un’intervista concessa al Los Angeles Times – mentre James Clapper, l’ex direttore dell’intelligence nazionale americana, ha detto di essere «preoccupato per la sua acutezza ed equilibrio».
Anche il comportamento tenuto da Putin negli incontri diplomatici ha fatto molto discutere: basti pensare all’enorme tavolo che ha separato il leader del Cremlino e il presidente francese Emmanuel Macron nell’incontro dello scorso 11 febbraio – la circostanza che quest’ultimo abbia rifiutato un test di marca russa per il Covid-19 prima dei colloqui non appare sufficiente per giustificare delle misure di distanziamento così spropositate. Inoltre, il presidente finlandese Sauli Niinisto, un interlocutore frequente nel corso degli anni, ha raccontato di aver riscontrato un brusco cambiamento nel comportamento di Putin durante una recente telefonata in cui il leader russo ha tradito una certa agitazione – «Si è comportato in un modo molto difficile da prevedere», ha detto alla CNN. Non dovesse bastare, dopo l’inizio dell’invasione della scorsa settimana, il presidente della Repubblica Ceca Milos Zeman, suo sostenitore di lunga data, è giunto a definire il leader russo come un «pazzo».
French President Emmanuel Macron told Vladimir Putin at the start of talks at the Kremlin that he aimed to avoid war and build trust https://t.co/KG0Vbc7t8L pic.twitter.com/JvDBviUr9l
— Reuters (@Reuters) February 7, 2022
Secondo altre voci, Putin starebbe ripescando a piene mani dall’esperienza della Guerra Fredda, rispolverando gli archetipi fondanti della cosiddetta “madman theory” (“Teoria del pazzo”), resa celebre dal presidente americano Richard Nixon tra il 1969 e il 1974, che punta a spaventare gli avversari convincendoli che li si potrebbe attaccare con delle azioni enormemente sproporzionate.
Una delle conditio sine qua non indispensabili per l’applicazione di questo approccio è, ovviamente, da ricollegare alla disponibilità di armi atomiche, dato che impiegare la minaccia del loro utilizzo è un espediente perfetto per esercitare pressione e aumentare il proprio potere contrattuale nei confronti della controparte. In effetti, da una decina di giorni a questa parte, Putin non ha perso occasione per fare riferimento esplicito alla minaccia nucleare: «Chiunque cerchi di mettersi di mezzo, o si muova per minacciare il nostro paese e il nostro popolo, sappia che la Russia risponderà immediatamente, e che le conseguenze saranno tali da non essere state mai viste nella storia», aveva detto durante il discorso dello scorso 24 febbraio, in cui annunciava l’inizio dell’invasione in Ucraina; in quella stessa occasione, Putin aveva ricordato che il suo Paese «continua a essere uno degli stati nucleari più forti», accusando l’Ucraina di avere avviato piani per dotarsi di armi atomiche, senza però portare alcuna prova a sostegno di questa affermazione. Secondo questa visione, Putin starebbe utilizzando la minaccia della guerra nucleare come reazione alle sanzioni e agli aiuti inviati in Ucraina: le sue esternazioni un pelino grottesche, quindi, non sarebbero il frutto di una condotta irrazionale, ma di una strategia della tensione ben precisa.
Quale che sia la verità, Putin è un leader sempre più difficile da decifrare: il confine tra despota pazzo e guerrafondaio visionario è sempre più sfumato.