Ieri, in quello che ha definito come un “blitz”, Matteo Salvini ha visitato l’hotspot di Lampedusa, organizzando una diretta Facebook per “documentare” le condizioni del centro d’accoglienza locale ed evidenziarne le condizioni di sovraffollamento.
Nulla di strano, se pensiamo che il voto del 25 settembre è alle porte, il segretario leghista è a corto di argomenti (e quando mai) e, secondo i più recenti sondaggi, i consensi del partito calano a picco, con la possibilità di sprofondare al di sotto della soglia del 10% delle preferenze; per raggiungere il suo obiettivo (che, come abbiamo scritto, non è la presidenza del Consiglio, ma la riconquista del Viminale, con l’obiettivo dichiarato di riattivare i due decreti Sicurezza), l’ex ministro dell’Interno non poteva che ripartire da Lampedusa – un’isola che, evidentemente, nella sua prospettiva esiste unicamente nelle settimane che precedono la campagna elettorale.
Blitz hotspot di #Lampedusa, guardate le VERGOGNOSE condizioni.
Questa volta non abbiamo avvisato nessuno della nostra visita, così potete vedere la realtà.
Dal 25 settembre Lega tornerà a difendere confini, l’abbiamo già fatto e lo rifaremo!#25settembrevotoLega, io ci #credo pic.twitter.com/fYDRMNaxHs— Matteo Salvini (@matteosalvinimi) August 31, 2022
Il filmato, diffuso sui canali social della Lega, è stato girato con il preciso scopo di suscitare indignazione negli occhi degli elettori più xenofobi e male informati dello stivale: la telecamera indugia sui volti (puntualmente non oscurati) dei migranti in fila per una razione di cibo, dei bambini buttati per terra, delle persone costrette a convivere con condizioni igieniche precarie e, soprattutto, degli smartphone che gli ospiti dell’hotspot utilizzano per parlare con i propri cari, informarsi o, semplicemente, ritagliarsi un (legittimo) momento di svago.
Nell’armamentario retorico delle destre, postare immagini che ritraggono dei migranti con in mano un cellulare è una delle strategie più gettonate in assoluto. Chi enfatizza questo aspetto, di solito, prova a far passare un messaggio ben preciso, ossia che quelle persone, in realtà, non se la passino poi così male, individuando nel “telefonino” della discordia la spia di una specie di status di ricchezza. È un frame narrativo che il fu capitano è tornato a rincorrere almeno da giugno, quando ha dichiarato che «Stiamo accogliendo 150mila bimbi e donne dall’Ucraina, questi sono profughi veri in fuga da una guerra vera, ben diversi da quelli che sbarcano a migliaia sulle coste calabresi, pugliesi e siciliane con il telefonino e le scarpette da tennis. Ma evidentemente a sinistra sono per accogliere tutti, senza distinzioni. Tanto pagano gli italiani…».
Si tratta di una semplificazione assurda e fragilissima che, però, continua a fare presa su una certa categoria di elettori: non a caso, nei commenti al post condiviso da Salvini su Twitter, si possono leggere perle del calibro di «Telefonino alla mano, tutti in ottima salute… da cosa fuggono?», «C’è un sacco di gente fuggita dalle guerre con cellulari e sigarette.. Una bella fortuna!» e «Umani che migrano, col telefonino, rilassati…non mi sembrano tanto in ansia».
Umani che migrano…..col telefonino, rilassati…non mi sembrano tanto in ansia.
— Matteo Bramucci (@BramucciMatteo) September 1, 2022
Ora: non serve un genio per comprendere che, per una persona che decide di spostarsi in un altro Paese, il cellulare rappresenta un bene di primissima necessità, il più importante in assoluto: è uno strumento che, tra le altre cose, permette di ottenere informazioni sulle legislazioni vigenti in un altro Stato, mantenersi in contatto con la propria famiglia con la rete di supporto già presente nel Paese di destinazione, organizzare gli itinerari, trasferire e ottenere denaro, utilizzare le app di geolocalizzazione per spostarsi e quelle di traduzione per iniziare a comunicare in una lingua inizialmente sconosciuta – è questo il motivo per cui, al loro ingresso nella struttura di accoglienza, le persone ricevono una ricarica telefonica. Un aiuto che, però, non basta in mancanza di una connessione gratuita, come sottolinea il sito italiano dell’UNHCR.
Per evidenziare il ruolo essenziale che lo smartphone assume nella quotidianità di ogni migrante, Marie Gillespie, professoressa di sociologia della Open University, ha coniato l’efficace espressione «Water, phone, food», sottolineando che, nella gerarchia delle esigenze che chi è costretto ad abbandonare la propria casa deve soddisfare prima della partenza, il possesso di un cellulare assurge al grado di priorità assoluta, al pari del cibo e dell’acqua. Sempre Gillespie spiega che, oggi, i migranti utilizzano gli smartphone e i social per cinque finalità ben precise: comunicazione, traduzione, informazione, navigazione e rappresentazione.
In relazione al primo punto, gli smartphone non soltanto aiutano i rifugiati a rimanere in contatto con le proprie famiglie, ma collegano anche gli utenti a determinate “reti sotterranee” che, il più delle volte, sono quelle che rendono possibile compiere il viaggio. Infatti, per chi versa in condizioni di indigenza, spostarsi in maniera legale è spesso difficilissimo e imprevedibile, soprattutto a causa della lunghezza dei tempi necessari per adempiere a tutte le esigenze burocratiche del caso. In queste situazioni, i rifugiati si rivolgono spesso a un «mondo sotterraneo digitale oscuro», ha spiegato Gillespie, entrando in contatto con determinati “agenti informali” (quelli che, in Italia, chiamiamo “scafisiti” o “trafficanti”) e comunicando con queste figure attraverso i canali crittografati di Facebook, WhatsApp e Telegram.
Peraltro, prima di partire, i migranti hanno bisogno di colmare alcuni bisogni conoscitivi, muovendosi in un mare di informazioni confuse e contrastanti; da questo punto di vista, le mappe degli smartphone, le app di posizionamento globale, i social media e la messaggistica istantanea sono diventati strumenti essenziali. I migranti dipendono da loro per pubblicare aggiornamenti in tempo reale sulla sicurezza di determinate rotte, sui loro spostamenti e sugli arresti e i comportamenti tenuti dalle guardie di frontiera. Peraltro, confrontarsi con i propri connazionali attivi nei vari gruppi Facebook consente di comprendere come muoversi una volta giunti a destinazione: confrontarsi con chi parla la propria lingua è utilissimo, ad esempio, per individuare un alloggio a prezzi accessibili o sviluppare un dialogo più consapevole con le autorità locali.
Gli smartphone sono importantissimi anche una volta che i migranti giungono a destinazione: contengono, spesso, prove documentali (foto, video) delle torture e degli abusi che hanno subito, che potrebbero rivelarsi indispensabili per integrare i requisiti che le legislazioni dei paesi ospitanti richiedono per ottenere l’accesso ad alcune forme di protezione, spesso subordinate all’esistenza di fondati motivi di ritenere che, se facessero ritorno nel Paese di origine, correrebbero un rischio effettivo di subire un grave danno. Ma la rilevanza di questi strumenti non si esaurisce qui: permettono di accelerare il processo di apprendimento della lingua del Paese di destinazione, grazie all’utilizzo di determinate applicazioni (negli ultimi anni, ne sono state sviluppate diverse indirizzate a questo preciso scopo ).
Riassumendo, come ha scritto Carlo Andrea Finotto in un’eccellente inchiesta pubblicata da Il Sole 24 Ore, nella prospettiva della persona che migra «Smartphone, social media e app diventano bussola e salvagente, tornando alla funzione originaria della comunicazione, che si è quasi persa nel mondo cosiddetto “sviluppato”, dove l’utilizzo compulsivo dei device assume sovente forme patologiche e di “vitale” ha poco o nulla.
Neppure regge la menzogna nella menzogna, ossia il prezzo: lo smartphone è, ormai, uno strumento accessibile a ogni fascia sociale – anche in condizioni di estrema indigenza, per acquistarne uno è sufficiente racimolare poche decine di euro.
Per tutti questi motivi, dare in pasto all’elettorato l’argomento fantoccio del cellulare e della fanta–equazione “smartphone=benessere” è un vero e proprio esercizio di miseria umana. Per favore: prima di schiumare di rabbia osservando un migrante che chatta su WhatsApp, accendiamo il cervello.