Da Reggio a Parma, da Parma a Reggio. A Modena, a Carpi, a Carpi al Tuwat. Di strada da fare Matteo Salvini ne ha ancora molta, per imprimere il suo faccione sulla cartina della fu regione rossa. Quell’Emilia a cui molti di noi non possono fare a meno di affiancare l’aggettivo “paranoica” dal 1985, anno in cui i CCCP pubblicarono l’interminabile brano che chiudeva l’EP Compagni, cittadini, fratelli, partigiani.
Oggi quella definizione coniata da Massimo Zamboni – in tutt’altro contesto storico e culturale – appare più vera che mai, di fronte a una terra sul punto di rinnegare definitivamente il suo passato e inaugurare una nuova fase. «Sapevo che saremmo partiti da qua», dice, senza fare una piega, il fondatore della cult band sorta tra Berlino e la Bassa.
Zamboni, nato a Reggio Emilia 62 anni fa, oggi vive sulla collina di Carpineti, tra i boschi. Segue un sacco di progetti, ed è molto contento di «avere un gran da fare». Si ha sempre la sensazione che non abbia granché voglia di parlare di politica, e probabilmente è davvero così, eppure ogni volta si rende disponibile a farlo. Non è da meno questa volta, in cui esordiamo con la citazione da uno dei suoi brai più iconici e con una domanda: hai visto quello che è successo a Ferrara?
«Ho letto, più che altro. E non sono stupito», dice. Il riferimento è al secondo turno delle elezioni amministrative, che domenica ha consegnato dopo 70 anni di centrosinistra la città estense alla Lega. Ferrara (con i suoi dintorni) non è un posto qualunque: qui sono stati anticipati molti dei cambiamenti in atto nella società italiana, già un secolo fa. Qui, tre anni fa, la “battaglia” contro i migranti subì un vigoroso salto di qualità, quando dei cittadini di Goro e Gorino, sul Delta del Po, avviarono la moda delle barricate per strada contro l’invio di richiedenti asilo (ben 12).
Nel capoluogo il nuovo sindaco è Alan Fabbri. Eccentrico e allergico al protocollo, come il suo mentore Matteo Salvini è uno che rilancia di continuo, mirando dritto alla pancia delle persone. Oltre a Ferrara, la nuova destra un tempo separatista e ora sovranista si prende anche Forlì, mentre Cesena, Modena e Reggio Emilia rimangono politicamente dove stavano. Fra pochi mesi si vota per le regionali e pensare – soprattutto dopo la “rivoluzione” delle Europee, che ha ridisegnato la mappa dei consensi lungo la penisola – al colpaccio della Lega, che già comanda in tutto il Nord Italia, è tutt’altro che un’eresia.
Più paranoica oggi o allora, dunque, la sua Emilia? «Se la paranoia è un timore che ti scava sotto la pelle, oggi in questa terra ce n’è davvero parecchia. Siamo governati da un senso di paura diffusa, che sinceramente faccio fatica a capire. Certo, il lavoro è calato e in giro si vedono facce nuove e inaspettate, in mezzo a un popolo che è storicamente aperto, ma allo stesso tempo molto conservatore. Ma questa rimane una zona ricca, dove si vive bene. Sinceramente non ho ancora capito quanto questa paura sia interiorizzata dagli emiliani, di certo non mi sfugge quanto venga propagandata».
Post, servizi tv, articoli e dichiarazioni che ogni giorno vogliono la nostra città in mano a immigrati fuori controllo e delinquenti vari sono entrati sotto pelle, anche dove gli anticorpi erano più resistenti. Poche volte c’è stata così tanta distanza tra reale e percepito, in un territorio in cui la fiducia nel futuro era una specie di culto. «Chi ci ruba la terra non arriva qua con una barca, ma è vestito all’ultima moda e parla un italiano perfetto. È preoccupante che a cadere in questo tranello sia un popolo in cui la cultura è sempre stata messa al primo posto. Per questo vorrei che si smettesse di puntare il dito contro la nuova egemonia che i nostri avversari sono stati in grado di creare, e si cominciasse a riflettere su quanto campo libero gli abbiamo lasciato noi per fare e dire quello che volevano».
Tutto, secondo Massimo Zamboni, è cominciato con l’abbandono dei luoghi di condivisione della quotidianità. «Ne siamo stati estromessi, fino farci sentire sempre meno cittadini», spiega l’autore di In Mongolia in retromarcia. «L’Emilia è sempre stata una terra di partecipazione estrema, a volte in maniera dissennata. Per molti il tempo libero è sempre stato attività sociale e politica e questa dimensione, oggi inesistente, non è sparita per colpa degli altri, ma solo nostra».
Inevitabile che in un simile deserto, chi arriva con le proposte più semplici e comprensibili a tutti si prende tutta la posta. «In passato da queste parti se succedeva un minimo problema le piazze erano piene, perché al governo c’era qualcuno che stava lì su mandato della gente, ben consapevole del fatto che questa non sarebbe arretrata di un millimetro sui propri diritti. Al 25 aprile a Mantova, qua vicino, il prefetto ha impedito di cantare Bella ciao perché troppo divisiva, e il Comune – di centrosinistra – e l’Anpi hanno accettato la decisione. Non difendiamo più nemmeno i valori su cui si fonda il nostro vivere assieme».
In conclusione, quanto deve preoccuparsi l’Emilia dell’opa ostile salviniana? «Qua ne abbiamo visti tanti passare, stabilire connessioni fortissime con il popolo e poi cadere rovinosamente. Anche gli imperi più vigorosi, alla fine, durano vent’anni. Il fatto è che la nostra vita siamo chiamata a viverla qui e ora, per cui spalle dritte e sguardo lontano».