I giorni caldi della crisi di governo sono inevitabilmente scanditi da un clima di profonda incertezza, in grado di minare le basi profonde della nostra convivenza come membri di una società. In gioco, come sempre, c’è molto più che il semplice futuro della legislatura: nel dedalo di strade che costeggia i palazzi romani si combatte infatti la battaglia per il cuore del Paese, quella che definirà al tempo stesso l’immagine dell’Italia agli occhi del mondo, la politica fiscale con cui affronteremo le conseguenze dell’emergenza sanitaria e il gruppo parlamentare che ospiterà Lello Ciampolillo.
Da ormai dieci anni a questa parte, a illuminare i tempi più bui della Repubblica ci pensano Enrico Mentana e la sua squadra, rassicuranti cronisti della crisi, pronti a seguire per intere giornate le peripezie della politica e a trasformare quel confuso susseguirsi di ultimatum e dichiarazioni in una narrazione coerente. Mentana c’era nel 2013, quando 101 franchi tiratori affondarono la candidatura di Romano Prodi al Quirinale, e non si fece trovare impreparato neanche l’anno successivo, mentre Matteo Renzi inaugurava con un “Arrivo, arrivo!” il primo dei suoi oltre mille giorni da presidente del Consiglio. Era lì, solerte e instancabile, a commentare il vuoto pneumatico che ha portato al primo governo Conte e il discorso solenne con cui “l’avvocato del popolo italiano” ha avviato le pratiche per il successivo cambio di maggioranza.
Enrico Mentana, insomma, per noi c’è sempre stato. Così, per festeggiare il decennale della celebre maratona (e il suo ritorno sulle scene, per seguire le trattative che dovrebbero portare ad un esecutivo guidato da Mario Draghi) abbiamo deciso di analizzare il format che il mondo ci invidia e l’idea di giornalismo che anima l’unico vero anchorman della tv italiana.
La prima cosa che salta all’occhio durante una trasmissione di Enrico Mentana è il suo smodato amore per il retroscena, il chiacchiericcio da corridoio che viene qui elevato a unico modo possibile di fare giornalismo. Complice la solida rete di conoscenze acquisita in oltre quarant’anni di carriera, il decano dei giornalisti italiani (come si dice in questi casi) detta i ritmi di una narrazione serrata, in cui gli unici tempi morti sono quelli utili ad abbassare lo sguardo sul cellulare per leggere l’ultima dritta inviata da uno zelante portavoce via WhatsApp. Una dinamica che si presta talvolta a strumentalizzazioni decisamente poco sorprendenti, come dimostra questo video in cui Rocco Casalino appare ben consapevole del potere esercitato sul sistema informativo.
Non dimentichiamo qual era il potere di Casalino e la sfacciataggine con cui lo ha esercitato, ma nemmeno chi ha tacitamente permesso tutto ciò pic.twitter.com/qtyrAUsg9g
— Simone Fontana (@simofons) February 4, 2021
Quella del retroscenismo politico è diventata nel tempo la pratica preferita dai giornali italiani, che ancora oggi dedicano ampio spazio a notizie di cui è spesso impossibile citare la fonte. Mentana e i suoi sono un’assoluta eccellenza in questo campo, soprattutto perché, in assenza di una fonte, tutto ciò che resta è la credibilità di chi riporta l’informazione. E l’intera carriera di Enrico Mentana sembra costruita proprio in funzione di questo obiettivo.
Modi garbati, parlantina sciolta e freddura tattica pronta all’uso, su internet Mentana è diventato l’emblema del “cerchiobottismo”, l’atteggiamento di chi preferisce non prendere posizione tra le parti in gioco – o sceglie comunque di prenderle entrambe allo stesso tempo. Si tratta di un meme, certo, ma quasi mai dalla sua bocca sentirete uscire un’opinione eccessiva o una sferzata troppo netta (a meno che l’oggetto del contendere non sia il commento di un utente anonimo sui social: in quel caso guai a non blastare il malcapitato). Il risultato è spesso paradossale, come quella volta in cui Mentana, per commentare l’omicidio a sfondo razziale dell’afroamericano George Floyd, parlò di “morbo dell’odio interetnico”.
Incidenti di percorso, dal momento che l’autorevolezza di Mentana non viene mai realmente messa in discussione. Non dai colleghi, entusiasti ospiti dei suoi salotti televisivi, e nemmeno dai protagonisti della politica, sempre pronti a interloquire con il direttore del Tg La7. E lui ricambia, che si tratti di sorridere a Beppe Grillo mentre annuncia serafico il prossimo processo all’informazione italiana, o di animare un dibattito nella sede romana di CasaPound. E sia chiaro, questo non è un atteggiamento di facciata: il profilo di Mentana, equidistante e aperto al dialogo, è perfettamente funzionale al dispiegamento del suo giornalismo, nel quale la politica diventa teatro e i politici parte della commedia. Una messinscena che necessita di una voce narrante, possibilmente onnisciente e super-partes. In altre parole, di Enrico Mentana.
E poi c’è la Maratona, la creatura in purezza del mentanismo, un piccolo fenomeno mediatico che non risponde a tempi televisivi e ragioni di palinsesto, ma solo alla logica della narrazione politica. Di questo spazio Mentana è il naturale mattatore, come appare chiaro fin dal nome della trasmissione, ma col tempo attorno a lui è sorta una schiera di bravi cronisti e opinionisti di grido, uno spettacolo nello spettacolo che ora include comprimari e sottotrame.
Protagonista indiscussa resta la politica, anche se declinata nella formula più spettacolarizzata e spettacolarizzante possibile. Perché la prima regola di una Maratona Mentana è che la politica non è quasi mai solo politica: diventa a tratti gioco di strategia, in cui ogni dichiarazione viene pesata alla luce delle sue implicazioni di lungo termine sulla partita, a tratti evento sportivo, con vincitori e sconfitti giudicati in base alla qualità delle proprie performance. Ogni accenno alla sua funzione pragmatica – amministrazione, conseguenze per il Paese, implicazioni dirette sulla vita dei cittadini – finisce per essere sepolta sotto una coltre di metafore calcistiche e clip musicali montate a mo’ di trailer.
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In quest’ottica la Maratona Mentana è senza alcun dubbio la produzione seriale di maggior successo della tv italiana, una sorta di House of Cards in presa diretta dove i convenuti – perlopiù uomini, mediamente conservatori, spesso e volentieri anziani – ipotizzano scenari possibili partendo da eventi reali. È un racconto della politica che ha successo perché supera la politica, fondendo fatti e ipotesi, scena e retroscena. È realtà, ma anche un po’ finzione. È ancora giornalismo, ma è soprattutto spettacolo. Il rassicurante spettacolo di un giornalismo che riempie di senso quelli che altrimenti sarebbero solo giochi di potere.