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Forse è arrivato il momento di fare i conti con gli anni della lotta armata

La Corte d'Appello di Parigi boccia la richiesta di estradizione di nove ex militanti armati comunisti e di Giorgio Pietrostefani di Lotta Continua. La fine di questa vicenda ci dice che la verità su quel periodo si può trovare solo fuori dai tribunali

La sentenza con cui la Corte d’Appello di Parigi ha respinto la richiesta d’estradizione italiana per nove ex militanti delle Brigate Rosse (e di gruppi affini) e di Giorgio Pietrostefani è stata una sorpresa fino a un certo punto. L’unica cosa che davvero è andata diversamente rispetto alle previsioni è stata la tempistica: ci si aspettava un percorso lungo anni, ma sono bastati appena 14 mesi dall’apertura dell’istruttoria per arrivare a un verdetto che sa di presa di posizione da parte della giustizia francese.

Il punto politico era la messa in discussione, anzi il superamento finale, della cosiddetta dottrina Mitterand, ovvero del principio secondo il quale la Francia offre asilo ai condannati per reati politici purché dissociati dalla lotta armata. La verità è che la sentenza della Corte d’Appello di Parigi, in effetti, ha segnato un superamento di quella linea, ma di certo non nel modo né nella misura che alcuni si aspettavano in Italia. Se qui, infatti, il nostro governo e la maggioranza delle forze parlamentari auspicavano un rimpatrio dei dieci latitanti, in Francia la giustizia ha deciso di negare l’estradizione citando la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, di fatto innalzando certi principi a un livello superiore. In sostanza, a finire tritato è il sistema italiano: a Parigi ritengono assurdo perseguitare persone a decenni dai fatti che li vedono coinvolti e, soprattutto, prive di alcuna pericolosità sociale, dal momento che non compiono reati di alcun genere ormai da tempo immemore.

Così, al netto delle lamentele della Lega e di Fratelli d’Italia, della delusione del Pd e dell’ammissione della sconfitta di Cartabia, il punto sembra averlo centrato Mario Calabresi, che parla sì di «sapore amaro di un sistema che per decenni ha garantito l’impunità ad un gruppo di persone che si sono macchiate di reati di sangue», ma dice anche di essere convinto da tempo che «mettere oggi in carcere Giorgio Pietrostefani, condannato per l’omicidio di mio padre, non abbia più molto senso, perché è passato mezzo secolo e perché si tratta di una persona anziana e molto malata».

È un punto da cui vale la pena ripartire per arrivare finalmente a costruire un discorso pubblico su quelli che sono stati gli anni della lotta armata in Italia. La verità è un affare complesso e può essere vista da diversi angoli. Il problema è che ad ogni angolo corrisponde anche uno spigolo e dunque, per la nota foga semplificatrice che spesso pervade i nostri media e i nostri politici, il dibattito si riduce quasi sempre a un confronto più o meno diretto tra gente che vorrebbe mettere tutti in galera, magari buttando pure via la chiave, e gente che invece si lancia in ormai improbabili difese della ragione delle armi.

Era il 23 ottobre del 1988 quando, dal carcere, i vertici delle Brigate Rosse fanno uscire un documento di quasi sette pagine in cui ammettono che «le Brigate Rosse coincidono di fatto con i prigionieri politici delle Brigate Rosse». È la deposizione delle armi, la dichiarazione della fine della stagione della lotta armata, nonché una sconfessione in piena regola di chi, fuori dalle patrie galere, continuava a usare il nome delle Brigate Rosse per firmare le proprie azioni.

Le Brigate Rosse, comunque, non sono state l’unico gruppo comunista armato attivo in Italia durante i cosiddetti anni di piombo (nome cinematografico che suona molto bene, ma forse a conti fatti improprio), ma di certo sono state una delle più grandi organizzazioni terroristiche mai esistite in Europa e dunque viene naturale prenderle come punto di riferimento quando si parla di lotta armata. La loro storia, durata 18 anni in totale, avrebbe avuto anche una coda tra il 1999 e il 2006, con la nascita delle Nuove Brigate Rosse, che però non sono mai state prese sul serio dal nucleo storico, che anzi in più occasioni ha sottolineato che quella storia non ha mai avuto nulla a che fare con le Brigate Rosse propriamente dette.

Sembrano sfumature, ma il punto è sostanziale: tra gli anni ’70 e ’80, in Italia, un gruppo di comunisti ha combattuto una guerra contro lo Stato. Una guerra vera, con tanti cadaveri e tanto sangue. Una guerra di attacchi e contrattacchi, di tattiche e di strategie, di attentati e di spedizioni punitive. A un certo punto, però, la guerra è finita: i nemici della Repubblica hanno perso, piegati dagli arresti e dalle condanne. Il fallimento politico di quell’esperienza, poi, spesso si è accompagnato con quello personale di chi ha tentato senza riuscirci l’assalto al cielo. Il reducismo, del resto, è l’aspetto più deprimente di ogni guerra.

Gli anni ’70 e ’80, però, non sono stati solo morti ammazzati e velleità rivoluzionarie. In quel periodo l’Italia crebbe molto dal punto di vista della consapevolezza politica e sociale, e conquistò una serie di diritti che ancora oggi per lo più riteniamo importantissimi (e che forse dovremmo ricordarci più spesso di difendere). È sbagliato considerare il periodo del terrorismo come un qualcosa che è stato solo cupo e opprimente, c’è stato molto di più e molto di più andrebbe detto e scritto. Non in un’aula di tribunale, alla ricerca un po’ assurda di una verità che nella sua forma giudiziaria forse non esiste nemmeno in generale, ma sui libri di storia, nel dibattito pubblico, nell’eredità che oggi è di chi quegli anni non li ha vissuti, anche perché non c’era. Bisogna fare pace con un concetto: è passato davvero tanto tempo e quella della «ferita ancora aperta» è in realtà solo retorica. Il terrorismo di matrice comunista, davvero, è lontanissimo dal mondo di oggi. E la soluzione può essere una sola: ricordare tutto, ricordare tutti, raccontare ancora.

In Francia, la Corte d’Appello di Parigi non ha fatto altro che ribadire un paio di questione di diritto, là dove la giustizia non è vendetta e non si esercita per regolare i conti con la storia, ma serve innanzitutto a tutelare le persone, la loro vita, la loro dignità. Il dolore dei parenti delle vittime si può solo rispettare, ma non c’entra nulla con quello che accade (che dovrebbe accadere) nelle aule di tribunale. In Italia dovremmo saperlo bene, dal momento che qui si è cominciato ad amnistiare i criminali fascisti appena pochi mesi dopo il 25 aprile del 1945. C’erano vittime del regime, gente che andava in qualche ufficio pubblico e magari si trovava davanti l’uomo che gli aveva ucciso un padre o un fratello, ma saggiamente allora si decise che l’unico modo per dichiarare finita la guerra era concedere la grazia agli sconfitti. Perché in fondo quello è accaduto anche al fascismo: è stato sconfitto.

Lo stesso discorso, oggi, andrebbe fatto per gli ex terroristi. Amnistia condivide la sua radice etimologica con amnesia, ma in realtà ne è l’esatto contrario: in questo caso significa poter ricordare finalmente tutto.

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