G. Gordon Liddy, la spia di Nixon che ha "rotto" la democrazia americana | Rolling Stone Italia
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G. Gordon Liddy, la spia di Nixon che ha “rotto” la democrazia americana

Morto a 90 anni, l'agente dell'Fbi era stato la mente dello scandalo Watergate, con cui il presidente Nixon aveva spiato i suoi avversari politici – innescando una crisi di fiducia nella democrazia americana che dura ancora oggi

G. Gordon Liddy, la spia di Nixon che ha “rotto” la democrazia americana

G. Gordon Liddy nel 2003. Chris Maddaloni/Roll Call/Getty Images

Per la gran parte della loro storia, gli Stati Uniti hanno avuto una percezione di sè come di nazione dal cuore inviolato. Non era un’ingenuità, non fino in fondo. C’è sempre stata una consapevolezza diffusa sui crimini commessi contro i nativi, nei paesi dell’America Latina e per le condizioni di lavoro non entusiasmanti di moltissimi salariati di origine straniera. Ma per quanto riguarda il processo democratico e il fair play tra i partiti, nessun dubbio. Non era proprio così, ma la corruzione di strutture come Tammany Hall a New York City e l’intimidazione e le violenze contro gli afroamericani nel Profondo Sud non causavano sensazioni di rotture profonde. Erano accidenti della storia, che il Destino Manifesto avrebbe pian piano superato. Finché nel 1973, quando esplose lo scandalo del Watergate, qualcosa si ruppe. Anche fisicamente.

Nel complesso residenziale detto Watergate, una squadra segreta dell’Fbi guidata da G. Gordon Liddy fa irruzione. Un presidente come Richard Nixon che spia gli avversari politici, commissionando l’impianto di microspie nella sede principale del Comitato nazionale dei Democratici. Quelle erano cose che facevano i loro avversari, i sovietici, o al limite qualche caro alleato in Paraguay o in Brasile. Nixon così divenne un sinonimo di corruzione e malaffare, il presidente paranoico che trama nell’oscurità per sabotare un avversario che peraltro avrebbe battuto largamente alle presidenziali. Ma tutto ciò non sarebbe stato possibile, senza G. Gordon Liddy, scomparso il 30 marzo all’età di 90 anni, l’uomo che fisicamente forzò la porta di quell’appartamento e incrinò la fiducia dell’opinione pubblica in modo forse definitivo.

Se forse si può attribuire il crescente senso d’impunità al concetto di presidenza “imperiale” descritto dallo storico Arthur Schlesinger, anche lo stesso protagonista, agente dell’Fbi riconvertitosi ad essere una sorta di capo della guardia pretoriana di Nixon, ha avuto un ruolo non indifferente. Liddy, proveniente da una famiglia di umili origini di Brooklyn, aveva studiato legge prima di entrare nel 1957 all’Fbi, dove si fa una fama di agente “senza scrupoli” – tanto da venire notato dal direttore J. Edgar Hoover, che lo rende suo ghostwriter – e dove si specializza in missioni clandestine. Un profilo perfetto per l’amministrazione Nixon.

Liddy cerca anche di farsi eleggere al Congresso nel 1970 a New York, ma fallisce. Ma a partire dal 1971, diventa il capo degli “idraulici” della campagna per la rielezione del presidente. Lo scopo di questa unità segreta, libera dai lacci e dei limiti di un incarico alla Casa Bianca, era quello di contrastare i tanti scoop giornalistici di quegli anni, come i Pentagon Papers pubblicati dal Washington Post, sul coinvolgimento decennale degli Stati Uniti in Vietnam.

L’irruzione al Watergate era solo una delle tante operazioni inventate da Liddy: alcune erano fantasiose, come la deportazione dei manifestanti antiguerra in Messico durante la convention Repubblicana o la diffamazione di alcuni esponenti democratici facendoli coinvolgere in un giro di prostituzione. Ma altre erano più sinistre, come l’omicidio del giornalista Jack Anderson, per l’interpretazione un po’ troppo letterale di una frase di Nixon: “dobbiamo occuparci di quel tizio, Anderson”. E il Watergate fu il vertice di questa serie di azioni, denominate collettivamente “Operazione Gemstone”.

Senza di esse, probabilmente, l’eredità di Nixon sarebbe stata molto più positiva: certo, non mancavano serie macchie come i bombardamenti segreti in Cambogia o l’organizzazione del golpe in Cile nel 1973. Ma gli Stati Uniti erano usciti dalla guerra del Vietnam, avevano aperto le relazioni diplomatiche con la Cina di Mao in funzione antisovietica, avevano un’agenzia per la protezione dell’ambiente e un’unica compagnia ferroviaria nazionale per il traffico passeggeri. Un bilancio sostanzialmente positivo e che magari avrebbe potuto portare a una nuova presidenza Repubblicana.

Invece finì male. L’eredità di Nixon, persa in questi intrighi di Palazzo, sarebbe stata un marchio di infamia e sinonimo di corruzione. Ma a suo modo fu un’apripista anche in questo: la presidenza rimase imperiale, tanto da fornire nuove idee a moltissimi successori: George W. Bush organizzò prigioni segrete per i sospetti di terrorismo islamico, Barack Obama pianificò le uccisioni mirate di Bin Laden e di altri ritenuti nemici degli Stati Uniti, mentre Donald Trump ha usato i fondi di emergenza per costruire il muro al confine con il Messico. Fino all’attacco lanciato sul Congresso, il temuto conflitto tra i poteri che i Padri Fondatori avevano cercato di sventare.

Di sicuro non era tutto dovuto a Liddy, che pagò con 5 anni di carcere la sua azione criminale, a differenza di Nixon che ebbe una vita tranquilla in una villetta in New Jersey e che si ricostruì una reputazione come saggio statista anziano. Ma quel personaggio carismatico, diventato famoso in tutto il paese per quel look da duro con i baffi a spazzola, di sicuro ebbe un ruolo simile a quello avuto da Gavrilo Prinzip nell’innescare una crisi di fiducia nella democrazia americana. Crisi che continua e che sembra sempre più profonda di anno in anno.