Vent’anni fa a Genova centinaia di persone manifestarono dissenso rispetto alle scelte da tempo prevedibili dei potenti della terra riuniti nel G8. Si battevano per i diritti sociali e furono aggredite, minacciate, picchiate, ferite da agenti delle forze dell’ordine, che agirono come se avessero avuto carta bianca da parte dello Stato, perché non fu possibile, come non lo è ancor oggi, identificare tutti i responsabili – nonostante una Risoluzione del Parlamento europeo del 2012 e Amnesty International lo stiano chiedendo. E quando è stato possibile i responsabili non sono destituiti né fermati, ma addirittura premiati: lo scorso i poliziotti Pietro Troiani e Salvatore Gava, ad esempio, condannati in via definitiva a 3 anni e 8 mesi (più 5 anni di interdizione dai pubblici uffici) per le loro responsabilità sono stati nominati vicequestori.
L’esito dei processi che ne sono seguiti si può leggere su siti tenuti in piedi da attivisti, come www.supportolegale.org (ex processig8.net) e nuove pubblicazioni fanno esercizio di memoria, come l’antologia di fumetti Nessun Rimorso. Genova 2001-2021, (37 autori tra cui Erri De Luca, Zerocalcare, Blu, Rita Petruccioli, Maicol e Mirco) o I fatti di Genova – Una storia orale del G8 del ricercatore Gabriele Proglio, che mette al centro decine di testimonianze dirette per far emergere la verità storica. Senza di loro – e senza i mediattivisti, i filmmaker e i registi che hanno raccontato quei giorni – del massacro di Genova sapremmo ancora troppo poco.
Quello che tutti ci ricordiamo è la morte di Carlo Giuliani vista in tempo reale in televisione, e poi l’angoscia per le persone di cui non si aveva notizia – come ha raccontato Enrica Bartesaghi, madre di una ragazza presente al corteo che non fu per rintracciabile tra il sabato e il lunedì, nel suo libro Genova: il posto sbagliato. La Diaz, Bolzaneto il carcere e ha scritto: «Ci dicevano ad ogni telefonata che si trovava in un carcere diverso, Pavia, Voghera, Alessandria, Vercelli, ma quando chiamavamo le diverse carceri ci rispondevano che Sara non era lì, non era mai arrivata in nessun carcere. Mi è sembrato di colpo di essere precipitata in un altro paese, in un’altra epoca, non ero più in Italia nel luglio del 2001, ma in Cile ai tempi di Pinochet o nell’Argentina dei colonnelli. […] Non era in nessun carcere, era a Bolzaneto. Dopo l’irruzione della polizia alla scuola Diaz-Pertini, dopo essere stata manganellata senza pietà, come altri 62 su 93 arrestati, per il solo fatto di trovarsi lì, è stata portata in barella all’ospedale Galliera dove è stata sequestrata nuovamente dalla polizia, nonostante i punti in testa, il trauma cranico e psicologico, e da lì portata alla caserma di Genova Bolzaneto insieme a molti altri anche loro feriti, alcuni più gravemente di Sara. […] Nessuno ha mai detto loro perché fossero stati arrestati, dove si trovassero, dove li avrebbero portati, nessuna telefonata permessa né ad avvocati né ai familiari, in contrasto con quanto previsto dalla Costituzione, dalle nostre leggi in caso di arresto»
Erica e sua figlia sono state solo due delle tante donne coinvolte nei fatti di Genova. A porre l’accento sul loro ruolo è un libro della giornalista e formatrice Monica Lanfranco appena uscito, Voi siete in gabbia, noi siamo il mondo. Punto G. Il femminismo al G8 di Genova (2001-2021). Il titolo riprende il nome dato a un incontro di oltre 140 gruppi e associazioni di donne di diverse generazioni e provenienze, che nel giugno 2001 ragionò sulla globalizzazione e sul suo impatto sulle vite delle donne del mondo. G come Genere, Globalizzazione, Genova. Nel frattempo anche il femminismo si è evoluto, e consci che sia più opportuno parlare piuttosto di femminismi, abbiamo chiesto a tre donne che erano a Genova nel 2001 quale fu la loro esperienza.
Raffaella Bolini quella storia l’ha vissuta a partire dal luglio 2000, fino a diventare una dei portavoce del contro-forum. Aveva 40 anni, era una pacifista. Viveva in Kosovo, dove coordinava una rete di solidarietà per Arci a seguito delle guerre in ex Jugoslavia. Il presidente dell’Arci Tom Benetollo (scomparso quattro anni dopo) le chiese se voleva tornare a casa e occuparsi di ciò che stava nascendo dopo l’incontro internazionale di Seattle nel novembre precedente. Lì si era formato un movimento per la giustizia sociale e alter-global in corrispondenza del vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio che doveva stabilire le sorti dell’economia mondiale. «Non c’erano i social e non avevo la tv, quindi non sapevo quasi niente di Seattle, ma tornai a Roma con l’obiettivo, come Tom, di costruire relazioni internazionali».
Al Forum Sociale di Porto Alegre in Brasile nel gennaio 2001 che si opponeva al Forum Economico Mondiale a Davos, la delegazione italiana fece nascere movimento anti-G8 di Genova. Contemporaneamente, a Milano Punto Rosso fece un lavoro nella stessa direzione. «Attraverso le guerre avevo visto morte, distruzioni e occupazioni ma, nonostante le tensioni fossero evidenti, non pensavo le avrei mai viste nel mio paese. Quando finalmente riuscimmo a entrare alla Diaz ricordo come fu difficile evitare le enormi pozzanghere di sangue. Ma va detto che Genova non fu solo violenza: fu un metodo. Fu un lavoro di convergenza tra storie e culture, fu costruzione di rapporti di fiducia e relazioni».
Erano presenti 1187 sigle, dai cattolici alle tute bianche, c’erano moderati e radicali e tutti convivevano, nonostante spinte diverse: Acli, Misericordie Agesci, Avis, Legambiente, Wwf. ONG di ogni orientamento, il Centro sportivo italiano, Centro turistico giovanile, Fitel, Uisp, le realtà per tossicodipendenti della Federazione Fict ed Exodus di don Mazzi, il Coordinamento di comunità di accoglienza di don Vinicio Albanesi, Telefono Azzurro, le associazioni di consumatori, i Disobbedienti, il pink bloc e altri ancora.
«Per me l’appoccio al potere, il poco potere che avevamo, era femminista. Personalmente non ho mai lavorato in gruppi esclusivamente femministi, ma l’approccio lì lo era. Non siamo mai caduti nella trappola della violenza di stato, nella spirale violenza – repressione che lo Stato si aspettava. All contrario, abbiamo sollevato il pacifismo popolare, dando la possibilità anche ai più deboli, fragili o timorosi di creare uno scudo contro la violenza. Di questo possiamo essere orgogliosi. Il 20 luglio, dopo la morte di Carlo Giuliani, infatti, molte organizzazioni decisero di non proseguire la loro partecipazione, mentre noi organizzatori del Genoa Social Forum continuammo, e furono fondamentali tutti coloro che avevano inizialmente deciso di rimanere a casa ma presero un treno o un pullmann per raggiungere Genova in solidarietà. Molti furono massacrati. Tutti insieme vincemmo la paura. La delega non fu data ai più forti, ma all’unione di tutti. In quei giorni mettemmo in campo azioni nonviolente, pacifiche e disobbedienti. E questo significa, esattamente come insegna il femminismo, riuscire a dialogare con chi la pensa diversamente, avendo cura delle relazioni. Solo evitando un approccio muscolare abbiamo ottenuto ciò che abbiamo ottenuto. E un anno dopo, nel novembre 2002 a Firenze, al Forum Sociale Europeo, eravamo ancora di più.»
Anche Alessandra Mecozzi fu portavoce del Genoa Social Forum. Oggi è in pensione ed è ancora un’attivista sociale e culturale, come presidente dell’associazione per i diritti dei palestinesi Cultura è libertà, come esponente di Società della cura (gruppo femminista che si occupa di disarmo, pace e giustizia) e con la rete In Difesa Di – per i diritti umani e chi li difende. «A Genova andai come responsabile internazionale della Fiom. Lo ero dal 1996 e nella stessa veste avevo partecipato a Porto Alegre, perché la Fiom sapeva che la globalizzazione è foriera di molti disastri per i diritti del lavoro, e riteneva servisse un ampio movimento, plurale, basato su partecipazione e democrazia». Le decisioni dei vertici economici “erano pilotate dalle multinazionali, a scapito dei sud del mondo. Facevo anche parte della marcia mondiale delle donne partita nel 2000. Per me era naturale lavorare da femminista e sindacalista alla costruzione di un movimento No-G8 in cui culture diverse si contaminavano e si davano forza reciproca con obiettivi comuni. La base era un “patto di lavoro” in cui mi ritrovavo anche perché escludeva drasticamente l’uso della violenza. L’amara sorpresa fu che la violenza la usò lo stato contro di noi, uccidendo il ragazzo Carlo Giuliani, picchiando, ferendo torturando decine di partecipanti. Del G8 si mettevano in discussione in primo luogo l’arroganza e l’ingiustizia di prendere in pochi potenti decisioni per tutto il mondo: la parola d’ordine era infatti “Voi G8, noi 6 miliardi”. È stata un’esperienza che non dimenticherò, nel bene e nel male: il bene della solidarietà, della pratica del consenso (da tempo presente nel movimento femminista), della sorellanza. Il male, invece, di una violenza preordinata contro pacifici manifestanti, evocante il fantasma del fascismo; dell’ipocrisia della politica dominante; del rifiuto di ascoltare denunce e richieste per un’economia e una società più giuste e della conseguente incapacità/ non volontà di dare risposte. Denunce e richieste che non sono certo il passato, ma quanto è sempre più necessario continuare a definire e praticare per il presente e il futuro».
Anche Eleonora Forenza, che è stata europarlamentare del gruppo GUE, andò a PuntoG. «Facevo parte del Forum Donne di Rifondazione Comunista e anche dei Giovani Comunisti. Il tema dell’incontro fu la critica del potere da una prospettiva femminista e fu per me un’esperienza indimenticabile. Già Seattle aveva un debito nei confronti di Pechino», dice riferendosi alla Conferenza Mondiale delle donne svoltasi nel settembre 1995. Il documento finale lì aveva invitato a “guardare il mondo con occhi di donna” e le parole chiave erano state punto di vista di genere ed empowerment. Oggi, prosegue Forenza, «la situazione è molto diversa. Il movimento femminsita internazionale è una marea più potente, dall’Argentina alla Spagna, fino in Italia e in Polonia. Non siamo solo una parte, ma siamo necessarie per realizzare il cambiamento». Diverso forse è il modo di pensare l’origine di tali problemi – maschilismo, il sessismo e il patriarcato – che per Forenza «esistono e sono sempre esistiti ovviamente anche negli ambienti politici. Io lo chiamo marxilismo. È importante conoscere la nostra storia e anche la genealogia che ci porta ad oggi. Per la mia tesi di dottorato ho studiato le femministe nella storia del Partito Comunista Italiano. Adriana Seroni nei primi anni Settanta diceva che nell’elaborazione del PCI la parte delle donne era un’aggiunta posteriore, e ancora oggi può succedere: ci sono tuttora i manels. Ma riconoscere le battaglie che abbiamo fatto ci dà più forza per combattere».
Conclude ancora Raffaella Bolini: «Abbiamo il potere di provare a cambiare il mondo, non in competizione, ma con la cura delle relazioni. Ci hanno fatto le cassandre, non hanno mai chiesto scusa e i problemi sono ancora tutti lì, dai brevetti all’ambiente». Perché «un altro mondo non solo è possibile, come diceva allora uno slogan, ma indispensabile alla nostra stessa sopravvivenza».