C’era una volta la presidenza americana. O meglio, in realtà c’è ancora. Ma è scomparso ciò che rappresentava l’unità degli Stati Uniti d’America. Con la morte di George H.W. Bush, questa caratteristica è tramontata per sempre.
La divisività della figura del presidente è ormai una costante. Clinton, Bush Junior, Obama e Trump sono detestati cordialmente dalla parte avversa. Bush era l’ultimo a incarnare uno dei pilastri dell’America, il compromesso tra le parti. George Washington aveva ammonito i suoi successori a evitare gli interessi di fazione in nome del Bene Supremo. Non andò così, e i partiti nacquero pressoché subito. Troppi interessi contrastanti tra il Sud dei piantatori schiavisti e il New England della nascente borghesia mercantile e intellettuale. Ma ciononostante, anche dopo l’abolizione della schiavitù, le parti rimasero distanti. Ma comunque, anche nel momento dello scontro supremo, ci fu sempre un’unità di intenti.
Dopo che nel 1861 venne dichiarato dal presidente repubblicano Abraham Lincoln lo stato d’insurrezione degli Stati del Sud, il leader dei democratici al Senato Stephen Douglas corse alla Casa Bianca per promettere il sostegno dei democratici allo sforzo bellico. Non andò così per tutta la guerra, ma quantomeno ci fu l’intenzione di mantenere una sorta di unità, almeno al vertice dello Stato.
Nel Novecento questa unità cominciò a scricchiolare, con presidenti pugnaci come Teddy Roosevelt e Woodrow Wilson. Nessuno si sarebbe più vantato di essere “il grande negoziatore di compromessi” come fece negli anni ’40 dell’Ottocento il senatore del Kentucky Henry Clay. Ma rimase la deferenza per la carica, per la quale si riteneva occorressero esperienze e capacità di leadership eccezionali, derivanti da una lunga esperienza in campo politico o militare. Attraverso la quale si sarebbe dovuto mediare tra i due riluttanti partiti per il bene supremo della nazione. Così Eisenhower riuscì a governare tranquillamente avendo sei anni di Congresso in mano al partito avversario. E lo stesso fece un presidente alquanto detestato come Richard Nixon, ex deputato, senatore e vicepresidente.
Oltreché veterano della Seconda Guerra Mondiale. George H.W. Bush, quando arrivò alla presidenza, nel 1988, era una delle persone con un’esperienza pregressa degna dei padri fondatori: laureato a Yale, ex deputato, ambasciatore all’Onu e in Cina e direttore della CIA. Una persona quindi estremamente preparata per l’alto compito che gli si prospettava. E governò in questo modo, cercando il sostegno dei democratici che controllavano il Congresso. Ma era già un pesce fuor d’acqua.
Il suo manager della campagna del 1988 lo aveva spinto a sfruttare tattiche scorrette di delegittimazione dell’avversario, il governatore del Massachusetts Michael Dukakis, attaccandolo per le sue politiche permissive dal punto di vista giudiziario. Ma nonostante alcuni scivoloni, mantenne quella preparazione da Padre Nobile della Repubblica che lo aveva caratterizzato, a volte con un effetto di straniamento, come quando durante la campagna del 1992 si ritrovò in un supermercato a guardare con meraviglia lo scanner dei prezzi, dato che non aveva mai fatto la spesa in vita sua.
Fu infatti proprio un outsider a sconfiggerlo, il giovane governatore dell’Arkansas Bill Clinton, che rappresentò per gli elettori americani una ventata di freschezza e di carisma puro. Carisma puro che però avrebbe iniziato l’epoca dei presidenti profondamente divisi. Già Jimmy Carter e Ronald Reagan lo erano stati, in parte. Ma con l’elezione di Bush sembrò che si fosse tornati alla normalità.
E invece era Bush Senior, l’anomalia. Non era adatto alle esigenze della politica moderna e degli appelli emozionali agli elettori. Il suo approccio paternalista non piaceva più a un elettorato che si nutriva di frasi a effetto eccezionali e battaglie “per l’anima dell’America”. Così Bush lasciò con grazia la presidenza al suo successore, senza mai entrare in polemiche né con lui né con Obama. Residuo di un’epoca in cui compromesso e moderazione non erano ancora parole tossiche per la popolarità di un leader politico.