Ieri Repubblica ha pubblicato una notizia incredibile: un’azienda italiana – la Copan Italia S.p.a.,, peraltro bresciana, il nuovo centro dell’epidemia del Coronavirus – ha venduto 500mila tamponi al Governo americano lasciando il nord Italia, e tutto il paese, nei guai. Lo scrive senza mezzi termini l’autore del pezzo, il vicedirettore Gianluca Di Feo: “La notizia appare sorprendente. Una ditta lombarda aveva a disposizione una quantità di tamponi sufficiente per i bisogni di tutto il Nord ed invece è stata venduta oltre Oceano”. Lo scoop è clamoroso, e Di Feo rincara il quantitativo di civile indignazione: “Sì, in Italia c’era una colossale riserva di test diagnostici, disponibile a poche decine di chilometri dall’epicentro del Covid-19: strumenti che le nostre regioni cercano in tutti i modi per arginare la diffusione del morbo ma che non riescono a trovare”.
Ricordate queste parole “strumenti che le nostre regioni cercano in TUTTI i modi […] MA che non riescono a trovare”. Davanti a un’operazione di un’avidità così sfrontata anche io, che mi indigno per quasi nulla, mi sono indignato.
Poi però – è brutto dirlo, ma è così – ho considerato la fonte. E insieme a essa il metodo – diciamo così non rigorosissimo – a cui purtroppo Repubblica ci ha abituati da molto tempo a questa parte. La letteratura è ampia: interviste mai avvenute, copia e incolla da pezzi altrui, traduzioni di articoli della stampa straniera passati per pezzi originali, invenzione completa di identità di testimoni oculari, eccetera. Chi lavora nei giornali lo sa bene, non è nessun segreto: dentro di sé Repubblica – ma non è la sola in questo – alberga un buon numero di giornalisti pronti a tutto per uscire con la notizia. Lo sappiamo noi che stiamo di qua; lo sanno loro che sono dentro. Diciamo anche che le varie gestioni che si sono susseguite alla guida del quotidiano di largo Fochetti hanno tollerato le “mele marce” con sufficiente disinvoltura.
Ora però questo caso va oltre. Qui non c’è solo la notizia non vera, o meglio parzialmente vera ma al 100 per cento irrilevante. Qui c’è una non notizia che lo diventa solo in ragione del contesto che inventi di sana pianta. Se dici che la Copan ha venduto 500mila tamponi agli Usa è una cosa. Se dici che la Copan ha venduto 500mila tamponi agli Usa in un momento in cui l’Italia e la tua stessa città, Brescia, sono al collasso sanitario per via del virus e che in ragione dell’avidità dell’azienda i cittadini bresciani e di tutto il Nord sono destinati a morire come mosche perché non c’è disponibilità di kit diagnostici, be’ la notizia diventa uno scoop, sul quotidiano prendi una paginata intera e scateni la rabbia e l’odio social contro “i cattivi” della storia (e infatti subito si sono liberati gli insulti peggiori sui profili dell’azienda). D’altra parte, arrivi a tirare in ballo anche il Governo: “I tamponi erano pronti a Brescia, nel cuore dell’epidemia, dove medici e infermieri lottano per bloccare il morbo prima che travolga Milano, dove ogni giorno migliaia di persone rischiano il contagio. Il nostro governo ne era informato?”, scrive sempre Repubblica.
Peccato che non sia vero niente. O meglio, è vero che la Copan ha venduto 500mila tamponi agli Usa (e peraltro ne venderà anche altri, come ha precisato nel comunicato diffuso nella notte), solo che per verificare la notizia bastava fare una cosa semplice, che con i potenti mezzi di Rolling Stone abbiamo fatto: siamo andati su Google, abbiamo preso il numero di telefono della Copan e abbiamo chiamato. Ecco la risposta: la Copan produce 10 milioni di tamponi a settimana, 20 volte il quantitativo “scandaloso” che è stato venduto agli Usa. Il nulla più assoluto.
Il problema, dicono dall’azienda ma lo confermano diverse fonti medico-sanitarie, non sono i tamponi, sono i laboratori di diagnostica per analizzarli, che si trovano oberati di lavoro. I tamponi sono lì, alla Copan, disponibili all’acquisto. Ecco che di colpo la notizia non è più una notizia, gli animi si raffreddano, l’indignazione cambia destinatario. L’odio però no, quello continua, perché mille smentite non valgono uno scoop “urlato”, è risaputo a tutti. Chi ha scritto deve assumersi la responsabilità di quel che ha fatto, dell’allarme che ha generato, dell’odio che ha prodotto e della sofferenza – magari di chi ha perso un proprio caro per il virus – che ha indotto in una parte di pubblico. Delle due l’una: o Di Feo è in malafede, e quindi è un incosciente disposto a estendere il caos in un momento di tragedia nazionale pur di “avere la notizia”, oppure è un incapace, e quindi dovrebbe posare la penna. In entrambi i casi, il giornalismo è un’altra cosa.