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Gli immigrati sono i grandi esclusi dalla campagna vaccinale

Per colpa di impedimenti burocratici e mancanza di organizzazione, più di 700mila immigrati non riescono ad avere accesso ai vaccini pur avendone diritto , ed è un problema, non solo per loro ma per tutta la società

Foto di Jonas Güttler/picture alliance via Getty Images

Lo scorso 3 giugno la giornalista del New York Times Emma Bubola ha raccontato le peripezie burocratiche di Vlado, un immigrato croato 63enne che vive a Roma e che da più di tre mesi prova a ottenere il nulla osta per la vaccinazione ma che, nonostante i molteplici tentativi e un quadro clinico abbastanza preoccupante (soffre di attacchi cardiaci e altre patologie gravi), non è ancora riuscito a ottenere una data per la somministrazione.

Quello di Vlado non è un caso isolato, ma la spia di una problematica piuttosto estesa: anche se il governo ha dichiarato che le persone hanno il diritto di essere vaccinate indipendentemente dal loro status legale, molti migranti privi di documenti hanno finito per essere sostanzialmente esclusi dalla campagna vaccinale.

Non esiste un censimento che dia conto dei numeri esatti di questo fenomeno ma, secondo le stime di Quotidiano Sanità, sarebbero oltre 700mila gli stranieri presenti sul territorio nazionale a cui, al momento, è preclusa ogni possibilità di immunizzazione – un numero su cui pesano gli oltre 200mila migranti che, da troppi mesi, sono intrappolati in un limbo amministrativo senza via d’uscita, dato che stanno ancora attendendo una risposta alla loro richiesta di regolarizzazione.

Come spiega Gianfranco Costanzo, direttore sanitario dell’Istituto nazionale salute, migrazioni e povertà (INMP), si  tratta di un cortocircuito generato dai rallentamenti burocratici: agli stranieri non in regola con il permesso di soggiorno vengono infatti rilasciati due codici identificativi specifici – il tesserino Stp (Stranieri temporaneamente presenti) e il tesserino Eni (Europeo non iscritto) – che garantiscono l’accesso alle prestazioni sanitarie urgenti o essenziali, tra cui le vaccinazioni. Tuttavia, questi codici vengono sistematicamente rifiutati dalla maggior parte delle piattaforme regionali per le prenotazioni del vaccino anti COVID-19, che richiedono invece il codice fiscale e il numero di tessera sanitaria.

In alcune Regioni i criteri d’accesso sono ancora più stringenti – ad esempio, il Friuli Venezia Giulia prevede l’inserimento dello Spid, il codice di identità digitale, mentre altre richiedono un numero di telefono cellulare certificato. Allo stato attuale, l’unica piattaforma che prevede l’inserimento dei codici Stp ed Eni è quella dell’Emilia Romagna.

Con dei requisiti d’ingresso così rigidi, i migranti non regolari non hanno la possibilità di prenotare la vaccinazione, pur avendo il pieno diritto di accedervi – e a confermarlo non sono soltanto la Costituzione e il Testo unico sull’immigrazione, che garantiscono l’universalità di cure e profilassi, ma anche l’Aifa, secondo la quale “per effettuare la vaccinazione alle persone (italiane e straniere) in condizioni di fragilità sociale può essere accettato un qualsiasi documento (non necessariamente in corso di validità)”, come “la tessera sanitaria Team (Tessera europea assistenza malattia), il codice Stp (Straniero temporaneamente presente) o il codice Eni (Europeo non iscritto)”.

Si tratta di persone che vivono in contesti abitativi precari e ad alto tasso di sovraffollamento, dove i rischi di contrarre il virus sono altissimi. Come sottolineato da Emanuela Petrona Baviera, membra della Società italiana di medicina delle migrazioni (Simm), “La mancata vaccinazione di una sacca così sensibile di popolazione costituisce un rischio di inficiare la buona riuscita di tutto il piano vaccinale, in un momento in cui preservare la salute del singolo coincide con preservare la salute della comunità”.

Per porre rimedio alla situazione, il Simm ha chiesto “che la piattaforma nazionale di registrazione dei vaccini venga prontamente aggiornata in modo tale da permettere di default l’inclusione dei pazienti senza codice fiscale secondo le stesse sequenze di priorità clinica della popolazione italiana”, evidenziando inoltre la necessità di fornire “indicazioni precise, nazionali, che guidino le sanità locali, giuste modalità e le scadenze temporali per adeguarsi in maniera tempestiva e uniforme su tutto il territorio al piano delle necessità pratiche, che sia prevista tecnicamente una maggiore flessibilità riguardo alla residenza o alle documentazioni in possesso degli utenti, onde evitare che farragini burocratiche vanifichino la necessità di dare urgente risposta a questa istanza di salute pubblica globale e comunitaria”.

L’esempio più evidente di questa degenerazione è quello della frazione di Bella Farnia, un ghetto indiano di Sabaudia, vicino Roma. Lo scorso 30 aprile la Regione Lazio, in seguito all’elevato numero di casi di coronavirus che erano stati riscontrati all’interno della comunità indiana locale, aveva disposto l’istituzione della zona rossa, poi prorogata fino al 21 maggio. Più della metà degli abitanti di Bella Farnia è rappresentata da immigrati non regolari: soggetti invisibili agli occhi delle istituzioni, dato che non dispongono di una tessera sanitaria, e costretti a fronteggiare una serie di criticità insanabili – in paese non è ancora stato predisposto un hub vaccinale, la maggior parte dei migranti vive in condizioni di sovraffollamento e non dispone di una macchina, potendo muoversi soltanto in bicicletta. La situazione è talmente delicata che, a partire da oggi, Emergency inizierà un’intensa campagna di screening per evitare che Bella Farnia possa trasformarsi in un focolaio pericoloso per la corretta esecuzione della campagna vaccinale.

Poche settimane fa, durante il Global Health Summit, Mario Draghi ha dichiarato che “dobbiamo vaccinare contro il coronavirus il mondo e farlo velocemente”. Bene, forse sarebbe il caso di cominciare dalle persone più fragili.

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