La violenza contro le donne è un problema degli uomini, non delle donne. È questo l’assioma che bisogna mettere continuamente al centro del dibattito pubblico per provare ad arginare quella che è una vera e propria emergenza silenziosa: nel 2021, finora, 103 casi di femminicidio in Italia, uno ogni tre giorni.
Eppure, non si può risolvere il problema senza guardare anche a chi la violenza la commette: gli uomini. Oltre ai preziosi Centri Antiviolenza, concepiti per dare supporto logistico e psicologico alle donne vittime di abusi, da alcuni anni sono infatti attivi su buona parte del territorio nazionale anche dei Centri di ascolto per uomini maltrattanti.
Il primo, nato a Firenze, oggi ha sede anche a Ferrara, in Sardegna, a Cremona e a Roma. È la rete CAM, che fa parte di RELIVE – Relazioni Libere dalle Violenze, un network di coordinamento nazionale che ne raccoglie in totale più di 40.
“In dodici anni di attività, solo a Firenze, abbiamo accolto più di mille uomini che ci hanno chiesto aiuto”, racconta Mario De Maglie, psicologo, vicepresidente e co-fondatore proprio della rete CAM. All’inizio il progetto era nato come costola di un Centro Antiviolenza destinato alle donne, ma poi si è reso autonomo. “L’obiettivo è comune, solo che anziché intervenire per dare supporto alla vittima noi agiamo per fermare i carnefici”.
Questo obiettivo, in origine, era raggiunto su base volontaria. Gli uomini si rivolgevano ai centri della rete CAM perché “a un certo punto riconoscevano che c’era un problema”. Oggi non è più così: i centri collaborano con le autorità, lavorano con uomini che sono obbligati a rivolgersi a loro da obblighi di legge o che lo fanno per ottenere vantaggi a livello processuale.
“È chiaro che se un uomo ci chiede aiuto da solo è più motivato”, osserva De Maglio. “Noi lo aiutiamo a riflettere sui suoi comportamenti e, soprattutto, sulle conseguenze. Il nostro lavoro nella maggior parte dei casi produce un cambiamento, ma questo non è per tutti. E quando un uomo non è in grado di cambiare, c’è bisogno di attivare altre procedure”.
La maggior parte di questi uomini ha tra i 30 e i 40 anni, un lavoro a tempo pieno e all’inizio del programma è ancora in una relazione, anche se al termine del percorso sono frequenti le separazioni. Dopo un primo incontro di conoscenza e valutazione – condotto rigorosamente di persona, Covid permettendo – l’uomo è inserito in un gruppo che intraprende un percorso educativo e psicologico che dura 9 mesi, con due incontri a settimana, in cui si cerca di aiutare i partecipanti a definire il proprio rapporto con la violenza, la genitorialità e la sessualità maschile. Al termine si può affrontare anche un percorso più terapeutico in senso stretto, individuale, che dura uno o due anni.
Il percorso mette al centro gli uomini e le loro responsabilità. “Noi siamo convinti che la violenza non sia una patologia, ma un comportamento che il maschio sceglie di adottare”, spiega De Maglie. “Allo stesso modo, quindi, si può scegliere di non compierla. Considerarla una malattia deresponsabilizza l’uomo”.
Ed è un percorso che produce risultati. Stando ai report della rete CAM, già all’inizio del percorso la violenza fisica cessa. “Si fa più fatica a bloccare quella psicologica, perché far capire che anche uno sguardo o una minaccia producono effetti dannosi è più complicato”, precisa De Maglie. E alla fine del programma, il numero di partner che dichiara di non provare paura del compagno o dell’ex è raddoppiato.
Certo, lavorare sugli uomini violenti non è la soluzione a un problema che è sistemico. Ricerche statunitensi affermano che gli uomini violenti hanno il 35% di probabilità di reiterare i comportamenti abusanti dopo che hanno seguito un programma di trattamento, contro il 40% se non seguono alcun programma. Il 5% di differenza non sarà tanto, ma sono tutte potenziali vittime in meno.