Il 2021 è stato un anno importante per il protagonismo e la leadership delle donne, ma anche un anno decisamente impegnativo per chi si definisce femminista.
Ricordiamo tutti com’è iniziato, con il Campidoglio statunitense preso d’assalto mentre era in corso la procedura di ratifica dell’elezione di Joe Biden alla presidenza. Pochi giorni dopo, la cerimonia del giuramento di Biden e Harris ci ha regalato il primo momento iconico: l’intervento della poetessa afrodiscendente Amanda Gorman, che ha incanta il pubblico con The Hill We Climb.
Gorman ha solo 22 anni e capiamo subito che sentiremo parlare di lei a lungo, ma non solo per il suo talento. Ha ricevuto molte critiche per aver indossato un outfit firmato Prada e dei gioielli regalati da Oprah Winfrey, e per il contratto che le è stato poi offerto dall’agenzia di moda IMG Models. Ecco, giudicare una donna per il modo in cui si presenta, suggerendo che farebbe meglio a dedicarsi solo alla moda e che si è svenduta al capitalismo, non è granché femminista.
L’ascesa di Gorman l’ha portata a partecipare ai maggiori eventi pubblici americani, come il Superbowl, e c’è chi l’ha accusata di “farsi usare dal sistema” per questo. Forse però sarebbe il caso di rallegrarsi se nel mainstream c’è spazio per una ventenne che sa farsi ascoltare in tema di esclusione sociale, razzismo, colonialismo e tutte quelle cose che il maschio molto medio non vuole sentir nominare.
Un’altra donna di cui si è parlato molto quest’anno è Aung San Suu Kyi, arrestata durante il colpo di stato militare in Myanmar che ha causato una terribile escalation di violenza. La sua è una storia piuttosto nota di ascesa e caduta: nata nel 1945, è figlia di un generale indipendentista che fu assassinato quando lei aveva due anni. Come leader dell’opposizione ha trascorso gran parte della sua vita in carcere, per poi uscirne e vincere il premio Nobel per la pace nel 1991. In seguito è diventata il simbolo della rinascita del Paese, per poi cadere in disgrazia quando è stata accusata di tacere sulla repressione dell’esercito nei confronti della minoranza musulmana dei rohingya. Tacere su un’oppressione, come ha fatto lei e come hanno fatto molte e molti che non volevano rinunciare a lei come icona, no, non è femminista.
Nel 2021 la regista Chloé Zhao è stata la prima donna non binaca a vincere un Oscar per la migliore regia, per Nomadland, film con cui ha raccontato un pezzo di umanità che in genere non finisce sotto i riflettori. Il successo internazionale del racconto nomade di Zhao ha portato la cineasta a dirigere quest’anno un film Marvel, The Eternals. Si è “venduta” anche lei, come è stato detto per Amanda Gorman? No, semplicemente si stanno aprendo più opportunità anche alle persone non bianche, finalmente.
I diritti delle donne, più in generale, sono stati un argomento utilizzato in modo opportunistico infinite volte, specialmente per definire una realtà, un paese, un contesto, un partito come più femminista degli altri. Lo abbiamo visto con le nomine dei ministri del governo Draghi, quando nessuna donna del Partito Democratico ha ottenuto questo incarico perché evidentemente non sostenuta a sufficienza nelle sedi decisionali. Contemporaneamente è cresciuto il consenso per Giorgia Meloni, unica donna leader sia di un partito politico europeo (ECR Party) che di un partito italiano (Fratelli d’Italia, che con lei ora è al 20% nei sondaggi).
Il momento peggiore per i diritti delle donne nel 2021 l’abbiamo visto ad agosto, quando i talebani hanno riconquistato Kabul dopo il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan. Si è iniziato a parlare di cosa sarebbe successo al Paese e alle donne, vittimizzate e silenziate. Ma finalmente la stampa internazionale si è anche accorta della loro resistenza e ha dato attenzione alla RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan), la cui fondatrice Meena Keshwar Kamal fu uccisa nel 1987 in Pakistan dal KHAD (i servizi segreti del governo socialista afghano).
Le donne afghane compongono addirittura metà della lista delle donne dell’anno stilata dalla BBC, rimanendo nei fatti sconosciute ai più. Viene da chiedersi: se la condizione delle donne e delle bambine afghane sta davvero così a cuore a chiunque, perché abbiamo permesso che la crisi nell’area degenerasse? Perché ci siamo fatti raccontare l’Afghanistan solo da chi lo occupava? Ci vorrà ancora del tempo perché da questa parte di mondo si realizzi che il femminismo non può essere imperialista.
Se c’è stato qualcosa di buono in quest’anno che ha messo duramente alla prova le femministe, è stata la pubblicazione di diversi libri utili al raggiungimento di una maggiore consapevolezza del proprio corpo. Utili anche per riflettere sull’opportunità di esprimere giudizi sul corpo altrui, come ad esempio Grass* della giornalista e attivista fat queer Elisa Manici. Nessun femminismo, del resto, è escludente. L’abbiamo visto anche nel corso del dibattimento del ddl Zan, caratterizzato dallo scontro sulla legittimità dei corpi transgender. Per questo anche su Rolling Stone abbiamo voluto voltare pagina intervistando Monica Romano e Porpora Marcasciano, elette nei consigli comunali di Milano e Bologna. E proprio a Bologna i manifesti della mostra di arte pubblica di Rebecca Momoli curata da CHEAP sono stati crossati da qualche perdigiorno dotato di bomboletta spray, perché evidentemente i capezzoli si devono vedere solo nel porno.
Infine, il 2021 si è chiuso su una nota positiva con la grande manifestazione femminista di Non una di meno. In un Paese in cui si contano più di 90 femminicidi dall’inizio dell’anno, i fondi per i centri antiviolenza sono bloccati e il piano triennale anti-violenza istituzionale è scaduto, una manifestazione cui partecipano oltre 100 mila persone viene presentata dalla stampa mainstream come fosse meno rilevante di quelle contro la “dittatura sanitaria”. Così, dopo aver individuato nei talebani i nemici delle donne, quella stessa stampa a metà dicembre dedica alla morte di bell hooks, ossia una delle figure più significative del femminismo, una serie di articoli che rivelano una conoscenza davvero sommaria del suo contributo agli studi culturali. Proprio lei che per prima aveva descritto la casa come “sito di resistenza” e che sarebbe quindi così importante leggere oggi.