“Non è che tutti sappiano cantare, né a tutti è dato cadere come una mela ai piedi altrui”.
Così scriveva Sergej Esenin nella sua poesia più nota, Confessione di un teppista, una poesia che tutti in Russia conoscono a memoria, e che qui da noi è stata resa celebre da Carmelo Bene.
Ho avuto modo di riflettere molte volte sul significato del suo incipit. Io penso che quel “cantare” altro non sia che il “dire la verità”, cosa che non tutti sanno o vogliono fare, e quel “cadere come una mela ai piedi altrui” sia il dono, il dono che il poeta offre spontaneamente ai suoi consimili. Ma dire la verità non è cosa semplice o scontata. Tutt’altro. Forse è persino impossibile nella quotidianità. Quante piccole bugie diciamo ogni giorno, magari per non ferire i sentimenti di chi ci vuole bene.
Dire la verità non è facile, in particolar modo quando si tratta di affermare il vero di fronte al potere. Socrate la chiamava “parresia”, e Foucault vi dedicò i suoi ultimi studi, prima di andarsene, lasciandoci soli in questo mondo pericolante, sempre chino sull’orlo del burrone, sempre pronto a crollare.
Colui che esercita la parresia (la parresia, che sia chiaro, non è un semplice parlar franco, ma è il dire il vero di fronte al più forte, a chi comanda, mi si perdoni l’insistenza) è il “parresiastes”. Ed io penso che il parresiastes sia l’esattissimo contrario del “politico”. Il politico la verità non la dice mai, e se la dice, ne dice soltanto una parte, quasi sempre piccolissima, per non venir meno al suo tornaconto, o ai desiderata della sua parte. Nel migliore dei casi lo fa per prudenza, nel peggiore per ingannare il popolo. Il politico è il bugiardo per antonomasia. È il demagogo, è colui che della menzogna fa professione.
Oggi mi guardo intorno, e stento a riconoscermi nella società in cui vivo. In questo cazzo di società in cui insiste la mia vita. Ma non mi dò per vinto. Neanche un po’. Non mi arrendo.
Diciamoci la verità, dacché siamo fra noi: siamo un popolo di pavidi, di scrocconi, di arrampicatori sociali, corrotti, approfittatori e opportunisti, di voltagabbana e doppiogiochisti, ladri e assassini, questo siamo.
Le più potenti mafie del mondo, questo siamo.
Ma in questo popolo, nel quale serpeggia l’immarcescibile serpente mafioso, c’è anche molta brava gente. Gente dal cuore grande. E donne e uomini consapevoli e coscienti. Giovani che studiano appassionatamente e che lottano per un’istruzione aperta a tutti e al passo coi tempi, lavoratrici e lavoratori integerrimi, scienziati di valore, operatori culturali convinti del ruolo sociale, sportivi talentuosi, artisti autentici, laici amorevoli e religiosi determinati. C’è persino chi sente dentro di sé una vocazione alla fratellanza. Gente che sa amare e vuole lottare per un paese più giusto e più uguale, che pensa al futuro del suo prossimo, al futuro prossimo e remoto di questo Paese, perché vuole lasciare ai suoi figli – e perché no, ai suoi nipoti – un orizzonte di speranza.
Siamo, in Europa (perché il mondo è troppo grande per noi) il popolo più contrastato e contraddetto. Impulsi vitali e mortiferi si combattono fra loro in una guerra che non finisce mai.
Oggi sta però accadendo qualcosa.
I seminatori di discordia e rancore sono saliti al potere, e in nome di un vociferato cambiamento, uno qualsiasi – l’importante è comandare – stanno distruggendo il tessuto democratico della società italiana.
Da molti anni sono al lavoro, da decenni, questi stronzi. Oggi è per loro arrivato l’imperdibile giorno dell’occupazione. Occupazione di ogni luogo di direzione, indirizzo ed esercizio del potere. Come un esercito straniero e usurpatore, questi traditori stanno rubando al Paese la sua anima democratica, estirpandola dai cervelli e costringendola nell’intestino cieco e sordo, ma nient’affatto muto, del neofascismo, ciò che oggi i politologi chiamano, con grave ritardo, fascioleghismo.
Me li ricordo io, quelli della Lega Nord, all’inizio della loro disavventura. Lavoravo in un bar, a Treviso. Non avevo che diciott’anni. Trentatré anni or sono, quindi. Come passa il tempo.
I clienti erano gente qualsiasi, colletti bianchi, segretarie d’azienda, personale bancario, assicuratori, pensionati, netturbini; c’era il parrucchiere, il fruttivendolo, il panettiere. Tutti, proprio tutti, uniti in un grottesco e preoccupato pensiero. I terroni.
Il chiacchiericcio dei neofiti leghisti era sempre lo stesso e verteva essenzialmente in accuse nei confronti dei terroni. I terroni ci rubano il lavoro, i terroni si comprano le lauree, i terroni rubano, i terroni evadono le tasse, i terroni sono terroni, terroni di merda, i terroni. I terroni erano il loro assillo. Più frustrata e senza amore era la loro vita (io me ne accorgevo, perché ero giovane e felice), e più se la prendevano con i terroni. Nessuno di loro aveva mai visitato Napoli, o Palermo, neppure Roma, ma sembravano sapere tutto, assolutamente tutto, di quanto lercio e dedito all’illegalità fosse il sud Italia.
Poi arrivarono gli albanesi e per quegli odiatori seriali fu come la manna dal cielo. Poi fu il turno di tutte le genti dell’Europa dell’est, poi dei cinesi. Naturalissimamente degli zingari, che non possono mancare. Nessuno di quei miei venetissimi concittadini sapeva cosa voleva dire la parola Romanì. Oggi, insieme al popolo Romanì, ci sono i poveri del sud del mondo, quelli che abbiamo derubato e derubiamo, quelli che uccidiamo a sangue freddo nel Canale di Sicilia.
Dire la verità non è un esercizio retorico. È il riconoscimento del rapporto di causa ed effetto delle nostre azioni. Stiamo assistendo a qualcosa di mostruoso. Lasciar morire la gente significa ucciderla, e questo è un fatto talmente vero che sembra inverosimile.
In trent’anni, che sembrano tanti, ma non sono che uno schiocco di dita, siamo diventati ottusi come non mai. Siamo diventati, di nuovo, fascisti. Dallo sfacelo fascioleghista il popolo italiano non uscirà indenne. Ne uscirà tramortito di vergogna. Il giudizio della storia peserà sul nostro paese come una lapide pesa sulla tomba.
Il fatto è che il fascismo, in Italia, è un sentimento. Un sentimento diffuso e condiviso.
Nel frattempo, abbiamo perso tempo. Ed eccoci all’oggi.
Ora, io penso che se da questo triste e periglioso momento storico vogliamo uscire a testa alta, dobbiamo avere l’intelligenza di indagare le circostanze in cui viviamo, e una volta indagate, riconoscerle per quel che sono. Dobbiamo essere sinceri con noi stessi, e dire che sì: c’è un movimento politico che non solo ricorda il ventennio mussoliniano, ma ad esso si appella e anela. Non siamo più di fronte a un folclore.
Di fronte a noi c’è una forza politica – si chiama Lega – che incarna nuovamente il fascismo, e che il fascismo vuole riportare al potere. Questo fascismo è già al potere, si è intrufolato nel governo del Paese. I suoi virgulti già avvelenano le coscienze. Il suo consenso si allarga, e dilaga. Questo fascismo spinge gli operai a odiare i disoccupati. I poveri a detestare i più poveri. Gli uomini a vessare le donne. Le donne a prevaricare le donne, nell’incanto pornografico del maschio. Gli adolescenti a bullizzare gli adolescenti. E poi ancora, a testa in giù, tutti quanti a calpestare le minoranze, a disumanizzare il fratello africano, la sorella romanì e i suoi bambini innocenti e indifesi, il prossimo tutto, in un turbine che mistifica financo il cristianesimo, spacciando per cristianesimo l’identitarismo nazionalista, elevando l’allucinazione medjugoriana a nuovo credo mariano, che riempiendosi le tasche di soldi, bestemmia il Vangelo, riducendolo ad una qualsivòglia indeterminata ideologia marxisteggiante.
Ce n’è abbastanza per precipitare nello sconforto e nella disperazione.
Pasolini diceva che “non c’è mai disperazione, senza almeno un po’ di speranza”.
Ci voglio credere. Quant’èvveroiddio.
Oggi è il 25 aprile, il giorno della memoria democratica. Il giorno in cui celebriamo la fine del regime nazi-fascista, la fine di quello stato di cose che fu violenza e vessazione, repressione e stigmatizzazione, odio e rancore, brutale esercizio del potere e, diciamo la verità, omicidio: omicidio elevato a diritto del tiranno di vita e di morte sui suoi sudditi. Tutti. Tutte.
La resistenza a quello stato di cose fu resistenza alla tirannide della legge del più forte e della sua strage. E quella resistenza, è doveroso sottolinearlo, fu donna.
Fu il momento in cui le donne debuttarono nell’agone politico della storia d’Italia, con la forza dirompente dell’amore che sa farsi fratellanza compiuta, sacrificio di sé, coraggio indomabile. Proprio per questo fu il momento in cui le donne italiane si fecero cittadine, senza se e senza ma, dando inizio a quel processo di lotta al patriarcato, che con lotte operaie originò la democrazia.
Oggi sono proprio loro, le donne, che dio le benedica, a raccogliere, staffetta partigiana, il senso del passato, del presente e del futuro.
Io c’ero, a Verona, con la mia compagna. A sbeffeggiare gli adoratori del vitello patriarcale. Mi ritrovai immerso in un fiume di donne, custodi amorevoli della democrazia e della costituzione. E fu un piacere grande, interiore ed esteriore, il piacere di non sentirmi solo, la mia voce non più sola, il mio pensiero non più chiuso in una gabbia. La mia voglia di giustizia incontrava quella del mondo.
Guardiamoci intorno. Il mondo vuole uguaglianza, rispetto per il prossimo, rispetto per l’ambiente, il mondo vuole la pace.
È la cultura, bellezza!
Che si fa arma contro i cannoni, cannone contro la guerra, guerra contro il fascismo. Che dio lo stramaledica.
Che ci benedica, il buon dio, perché ci benedice.
Noi siamo le sue pecorelle smarrite. Non i cani rabbiosi che al guinzaglio di Goebbels abbaiano e latrano contro tutto ciò che non capiscono.
Signor Ministro.
Il Venticinque Aprile non è un derby tra fascisti e comunisti.
La Resistenza fu fatta da tutte e tutti: liberali, cristiani, socialisti e comunisti. C’erano tutte e tutti. C’eravamo tutte e tutti. Perché il Venticinque Aprile ci appartiene, e noi gli apparteniamo. Noi siamo la Storia. Non la storiella.
Noi, donne e uomini veri, siamo i parresiastes del nuovo millennio, e sappiamo cantare. E, come una mela, sappiamo cadere. Ai piedi altrui.
Signor Ministro, questo Paese non è tuo.
È nostro.
Il partito nazionale fascista non era una squadra di calcio.
Era una banda di assassini.