Per capire perché il caso di Donato Bergamini continui ad essere un rompicapo anche trentadue anni dopo il suo inizio è necessario sforzarsi per immaginare un contesto che, al giorno d’oggi, appare lontanissimo, quasi irreale.
Siamo a Cosenza alla fine degli anni ’80 e quello che tutti chiamano Denis Bergamini è un (buon) centrocampista al suo secondo anno di Serie B. Ventisette anni, emiliano di origine, biondino, sguardo affilato, dopo tre stagioni tra i dilettanti, in Calabria sembra aver trovato un ottimo trampolino di lancio per la sua carriera: cinque stagioni, una promozione e un luminoso futuro che sembra ormai imminente. Si mormora di un accordo già stretto con il Parma di Nevio Scala.
Ecco, in una realtà di provincia un ragazzo del genere è facile incontrarlo in giro per locali, e inevitabilmente non sono pochi quelli che lo frequentano perché «è famoso». Amici (veri o presunti), spasimanti, ammiratori che offrono pranzi e cene solo per potersi vantare di averlo seduto a tavola con loro.
Il 18 novembre del 1989, lungo la Statale 106 Jonica, all’altezza di Roseto Capo Spulico, Donato Bergamini viene trovato morto. Suicidio, dicono. Due testimoni concordano sul fatto che il ragazzo si sarebbe buttato sotto le ruote di un camion e sarebbe poi stato trascinato per quasi 60 metri. La procura indaga (poco) e manda a processo l’autista del camion, che verrà assolto dall’accusa di omicidio colposo.
La famiglia, però, non crede neanche un po’ a questa versione della storia: le ferite, sostengono, non sono compatibili con il trascinamento sull’asfalto, i suoi vestiti non hanno sopra il fango che dovrebbero avere, visto che la strada è una distesa di pozzanghere. Anche i tifosi e i compagni di strada, intervistati dalla stampa dell’epoca, si dicono dubbiosi e, se i motivi che possono portare qualcuno a togliersi la vita spesso e volentieri restano un mistero per sempre, nessuno sembra credere davvero all’ipotesi del suicidio. Nell’Italia che sta entrando negli anni ’90, però, i dubbi non sono esattamente una qualità tra le più apprezzate e quindi il mistero della fine di Donato Bergamini resta un rumore di fondo, quasi una chiacchiera di paese.
Nel 2001 il libro di un ex calciatore forse un po’ troppo fissato con le teorie del complotto – l’ex Milan e Roma Carlo Petrini – racconta una storia differente: Bergamini è stato ucciso dalla ‘ndrangheta perché non voleva truccare le partite. Il calciatore suicidato (Kaos Edizioni) non porta prove ma fa parecchio rumore. Al suicidio, appunto, non ci ha mai creduto nessuno, anche se l’intreccio tra malavita e calcioscommesse appare come una trama troppo cinematografica per essere reale. A Cosenza sono convinti che il movente, come si diceva una volta, è passionale. Il colpevole, si pensa, va cercato tra quelli che sembravano non mollarlo mai, nel codazzo di aspiranti approfittatori convinti di aver trovato un amico famoso, tra le sue ammiratrici. O forse ancora più vicino.
Il 29 giugno del 2011 la procura di Castrovillari riapre il caso: gli investigatori sono convinti che Bergamini sia stato ucciso. Le prove arriveranno il 22 febbraio dell’anno successivo, quando i Ris di Messina depositano una perizia secondo la quale, al momento dell’investimento, Bergamini era già morto. La tesi, per la verità, non è nuovissima: già nel 1990 una perizia del professor Francesco Maria Avato era arrivata alle stesse conclusioni, anche se le indagini non diedero alcun peso alla cosa.
È il 15 maggio del 2013 quando l’ex fidanzata del calciatore, Isabella Internò, viene iscritta nel registro degli indagati per omicidio volontario. Il movente? Quello passionale che in città si diceva da tempo. Per fare un processo, però, non bastano le chiacchiere da bar e, in mancanza di altre prove oltre alla perizia del Ris, l’indagine viene presto archiviata.
Passano quattro anni, siamo nel maggio del 2017, e le indagini vengono aperte per una seconda volta. Questa volta la procura riesce a ottenere dal Gip qualcosa che prima non gli era mai stato concesso: la riesumazione del cadavere di Bergamini per effettuare una nuova autopsia. Il 16 novembre arrivano i risultati: prima di finire sotto al camion, il 27enne era stato strangolato probabilmente da una sciarpa. Il suicidio, dunque, sarebbe stato una messa in scena. Ordita da chi? Nel 2021, quando comincia il processo, sul banco degli imputati c’è di nuovo lei, Isabella Interò.
L’accusa è di omicidio volontario premeditato e aggravato dai futili motivi. Secondo la procura di Castrovillari la storia è questa: Isabella rimane incinta di Bergamini che però non la vuole sposare. Lei abortisce e lui, che però non sarebbe stato contrario alla gravidanza, la lascia. Da qui il movente dell’omicidio. Davanti alla Corte d’Assise di Cosenza i magistrati si presentano con un faldone di carte monumentale e duecento testimoni da ascoltare, tra cui anche quattro pentiti di ‘ndrangheta.
Arriviamo così a oggi. Le udienze vanno avanti in maniera piuttosto spedita e nelle testimonianze rivive l’Italia di trent’anni fa. Un paese diverso da quello attuale, eppure in controluce certi tic, certi riflessi condizionati, sembrano una prova schiacciante del fatto che in realtà il tempo non passa mai ed è destinato a ripetersi sempre uguale.
Inevitabilmente, come nell’intreccio di una qualsiasi soap opera, a un certo punto è spuntata fuori pure l’amante. È tra i testimoni e lo dice chiaramente: «Donato mi diceva che mi amava moltissimo, che ero la donna della sua vita. E quando mi chiese di sposarlo, una sera a Cervia a fine agosto del 1989, mi lasciò di stucco, anche perché mi aveva annunciato di volere un figlio. Diceva che era il più grande sogno della sua vita».
La donna si chiama Roberta Alleati e già trent’anni fa aveva detto la sua in una lettera fatta recapitare alla famiglia di Bergamini. Internò, dunque, avrebbe ucciso (o fatto uccidere) il fidanzato (o ex) per gelosia. Un grande classico della cronaca nera. Oppure no? Forse c’è di più: la vicenda dell’aborto, in fondo, risale a due anni prima della morte di Bergamini. E però, se non è stato un suicidio, Isabella di certo ha mentito. La sua versione degli ultimi istanti di vita di Denis è questa: lui era andato a prenderla a casa con la sua Maserati poi, di punto in bianco, lungo la Statale a un certo punto si è fermato, è sceso dalla vettura, ha percorso qualche decina di metri a piedi e poi si è lanciato sotto al camion.
L’autista, Raffaele Pisano, ha sempre confermato: Denis gli è volato sotto alle ruote, non poteva fare nulla per fermarsi, praticamente non se n’è nemmeno accorto. Ma il cadavere è stato ritrovato integro, con i vestiti intatti, pochi graffi qua e là e, addirittura, l’orologio che ancora andava avanti. Uno che viene trascinato per 60 metri sull’asfalto dovrebbe avere tutt’altro aspetto. Almeno in teoria.
In trent’anni le carte dell’inchiesta originaria non si trovano più, così come sembra essere sparita nel nulla la scatola con i vestiti che Bergamini indossava il giorno in cui è morto. Il processone di Cosenza è la coincidenza di una mole di chiacchiere, suggestioni, certezze da bar, perizie, controperizie, trame da film noir e la certezza diffusa che le cose non sono andate come si era detto in un primo momento. Ma se i segreti sono già stati raccontati, vuol dire che non erano davvero segreti. Fuori dal tribunale tutta la città ne parla ancora.