Che l’Italia avesse un problema con le sue infrastrutture lo sapevamo ben prima del disastro della funivia del Mottarone. Gli arresti di questi giorni, però, dovrebbero ampliare la prospettiva e far riflettere sul problema di mentalità che sta alla base di tante tragedie infrastrutturali: una cultura del lavoro sbagliata che fatica ad attribuire alla sicurezza un valore imprescindibile, considerandola piuttosto poco più di una perdita di tempo.
L’idea che 14 persone siano morte perché qualcuno ha fatto la scelta consapevole di rinunciare al sistema di emergenza per non perdere giornate di guadagno lascia sgomenti. I titoli dei giornali riflettono questo sentimento: il Messaggero parla di “Scelta mortale”, Repubblica di “Strage dell’avidità” e così via. L’indignazione da day after però serve a poco se una volta passata l’onda emotiva si torna alla solita cultura imprenditoriale che vede nella sicurezza un ostacolo alla produttività. La stessa cultura che ha portato tante fabbriche e aziende a restare aperte anche in piena emergenza sanitaria, nonostante i luoghi di lavoro fossero i principali bacini di contagio.
La società Ferrovie del Mottarone non ha il monopolio dell’avidità. Attribuire anzi tutta la responsabilità all’ingordigia sfrenata di pochi singoli è un modo semplicistico di interpretare tragedie complesse, una scappatoia che viene utilizzata fin troppo spesso per canalizzare l’indignazione e chiudere la vicenda. La logica del “rischio calcolato”, che antepone il profitto alla tutela di fruitori e lavoratori, è invece alla base di tante tragedie simili, prima tra tutte quella del ponte Morandi di Genova, la cui inchiesta è stata chiusa giusto un mese fa, il 22 aprile, con l’iscrizione nel registro degli indagati di 69 tra manager, tecnici e dirigenti con l’aggiunta delle due società del gruppo Benetton, Aspi e Spea.
Partendo da una singola vicenda, l’indagine ha scoperchiato tutta una gamma di anomalie e disservizi che riguardano in particolare i meccanismi di manutenzione di viadotti, ponti e gallerie, di cui i falsi report sullo stato di salute di vecchie infrastrutture non sono che la punta dell’iceberg.
“Il Ministero continua a proporre nuove opere senza curare la manutenzione di quelle già esistenti e vigilare sulla loro sicurezza” ha dichiarato Dario Balotta, presidente dell’Osservatorio Nazionale Infrastrutture e Trasporti, mettendo in relazione la tragedia del Mottarone non solo con il crollo del ponte Morandi ma anche con quello del ponte di Aulla (Massa Carrara) e di La Spezia e con i deragliamenti del treno a Pioltello e dell’Alta Velocità a Tavazzano (Milano). Ma potremmo aggiungere l’incidente ferroviario tra Andria e Corato, in Puglia (23 morti nel 2016) o il crollo della scala mobile nella stazione Repubblica della metropolitana di Roma (2018). Tutte tragedie eterogenee che rivelano però una certa omogeneità quando l’indagine degli inquirenti inizia a portare alla luce moventi e responsabilità.
L’Italia, dicevamo, ha un problema con le sue infrastrutture. Perché sono molto vecchie, è risaputo, e nonostante ciò non si interviene con il tempismo e l’apprensione necessari a garantire una vera messa in sicurezza. Ma il problema riguarda anche strutture tutt’altro che obsolete, come testimonia il ponte di Cropani, che nel 2019 è crollato a pochi giorni dall’inaugurazione.
E non riguarda nemmeno solo le infrastrutture, perché la questione della sicurezza (o della scarsa cultura della sicurezza) è alla base anche delle troppe morti sul lavoro, che chiamare “morti bianche” rischia di ingentilire, mentre andrebbero affrontate in tutta la loro brutalità. Luana D’Orazio, rimasta incastrata nell’orditoio dell’azienda tessile per cui lavorava come operaia, non è che uno dei tanti casi: due persone al giorno dall’inizio dell’anno, stando all’Inail.
Nella maggior parte dei casi non si tratta di tragiche fatalità. L’ultimo rapporto dell’ispettorato nazionale del lavoro spiega che il 79,3% delle aziende ispezionate l’anno scorso per verificare la tutela della salute e della sicurezza sugli spazi lavorativi è risultata irregolare. In pratica quattro aziende su cinque non rispettano i protocolli securitari. Per non parlare della galassia ancora più nebulosa del lavoro nero: oltre tre milioni di persone senza contratto che si ritrovano a svolgere le loro mansioni in totale assenza di tutele. Che per effetto della pandemia e con lo sblocco dei licenziamenti probabilmente diventeranno ancora di più.
La tragedia del Mottarone è il caso sconvolgente che grida vendetta ma la verità è che quasi tutte le vittime del lavoro muoiono “per soldi”. Per ingrassare le tasche del caporale, gestore o imprenditore di turno che risparmia sulla pelle dei propri dipendenti ma anche per arrivare a fine mese, non importa se accettando condizioni di lavoro umilianti e senza tutele.
È importante capire che logica sottesa è sempre la stessa: massimizzazione del profitto, industrialismo senza freni, turismo a buon mercato. Altrimenti non capiamo neanche perché il Recovery Fund da un lato promette l’assunzione di 2000 nuovi ispettori e grossi investimenti sulle infrastrutture, allo stesso tempo però si sta lavorando a un decreto semplificazioni che vuole azzerare il codice degli appalti, liberalizzando il subappalto e togliendo ulteriori paletti in termini di controlli e sicurezza. Un colpo al cerchio e uno alla botte.