I primi tempi, quando arrivava alla Camera, i commessi lo scambiavano per un portaborse. Dell’insubordinato, Luigi Di Maio – sempre vestito in completo blu e camicia bianca, i capelli corti e il volto rasato – aveva l’appartenenza al Movimento 5 stelle, e nient’altro. Da allora sono passati cinque anni e l’evocazione di un’Italia da rifare daccapo, per questo trentunenne diventato vicepresidente della camera a ventisei anni, continua a convivere con l’aspetto rassicurante da impiegato di provincia, la testa piena di progetti apocalittici e la faccia da perfetto integrato. «È un ragazzo pulito, con la camicia bianca, per bene. Un Kennedy senza carisma», dice a Rolling Stone Marco Belpoliti, autore di un libro diventato un classico della comunicazione, Il Corpo del capo, che racconta come Silvio Berlusconi abbia creato la sua icona e come l’abbia trasformata in un’arma del successo politico (il 20 febbraio Guanda lo ripubblicherà con trenta pagine inedite). «La pulizia di Di Maio – spiega lo scrittore e saggista – è probabilmente anche un limite, perché non ha né un viso che si imprime nella memoria, né promana una figura carismatica».
«Le parole sono importanti», diceva Nanni Moretti. Il corpo lo è ancora di più, nella politica moderna ultra mediatizzata. «Change», cambiamento, lo slogan della prima campagna elettorale di Barack Obama, nel 2008, sarebbe stata una banale dichiarazione d’intenti se a incarnarla non ci fosse stata la pelle nera di quel senatore dell’Illinois, candidato a diventare presidente della repubblica di una nazione dove sugli autobus, fino a sessant’anni prima, alcuni posti erano ancora riservati ai bianchi. Luigi Di Maio si muove in questo terreno della politica contemporanea in cui ogni dettaglio fisico è come la lettera di un alfabeto, una lingua che – in Italia – nessuno conosce meglio di Silvio Berlusconi. L’uomo che, quando si presentò agli italiani, inviò in ogni casa l’album fotografico della sua vita – Una storia italiana era il titolo –, con immagini dei suoi successi e della sua intimità, una trasformazione del suo privato in uno spettacolo pubblico: «Berlusconi – spiega Belpoliti – è un genio della rappresentazione di sé. Inavvicinabile. Persino Beppe Grillo, che è un attore, più attore di Silvio, non può competere con lui. Si è presentato come imprenditore, come padre di famiglia, poi come satiro del Bunga Bunga, quindi come nonno con il cagnolino, fidanzato della giovane Pascale. Ha saputo interpretare a modo suo lo slogan femminista: “Il privato è politico”. Un perfetto narciso che ha creato un brand personale e fisico. Niente di tutto questo in Di Maio».
La prima volta che il capo dei 5 stelle apparve sulla scena politica indossava un golf nero e una camicia bianca a righe. Era il 2010 e si auto-candidava al consiglio comunale di Pomigliano d’Arco, la città in cui è cresciuto: «Prima il maglioncino in provincia, poi la giacca a Roma. Di Maio ha fatto lo steward e ha mantenuto quello stile: esagerato con moderazione. Da manichino». La giacca da «impiegato di concetto» è diventato l’indumento immancabile del neo capo dei 5 stelle: «Fa molto piccola borghesia meridionale», spiega Belpoliti. Che, osservando le foto della sua gallery su Facebook, dice: «Non mi sembra sia molto sexy, ma forse io non sono sensibile a questo messaggio erotico che si intuisce da certi ammiccamenti del tutto inconsapevoli. Forse, però, c’è un elettorato femminile che lo coglie. Le mamme, le cinquantenni. E anche i cinquantenni. Che poi è il pubblico che il Movimento 5 stelle deve conquistare per vincere e elezioni».
Il torso nudo fu il simbolo della nazione proletaria mitizzata da Benito Mussolini. Celebri sono le foto che lo ritraggono al lavoro in un campo di frumento senza camicia, quando lanciò la campagna del grano. Il suo corpo, per tutta la durata del regime fascista, fu un raffinato strumento di propaganda. Al punto che, quando la Repubblica di Salò finì, con il suo cadavere vilipeso a piazzale Loreto, il corpo divenne un tabù per l’intera politica nazionale. Nessuno, nella prima repubblica, fosse democristiano, comunista, socialista, repubblicano, liberale, socialdemocratico o missino, usò mai se stesso per sedurre gli elettori. La repubblica dei partiti era priva di corpo. Disincarnata. Esso irruppe sulla scena violentemente, come capita spesso ai rimossi, sotto forma di un cadavere: quello del segretario della Democrazia cristiana, Aldo Moro, fatto ritrovare nel bagagliaio di una Renault 4 rossa a Roma, in via Caetani, dalla Brigate Rosse. Era il 9 maggio del 1978 e quel giorno la prima repubblica iniziò a finire.
«Il corpo di Di Maio – spiega Belpoliti – è quello di una prima repubblica rivista. Non c’è più il cattolico militante della Democrazia Cristiana, non c’è l’ex ragazzo della Federazione universitaria cattolica che diventa deputato. Il mondo è cambiato. E indietro non si torna. O meglio, si torna al proporzionale, e Di Maio rappresenta una parte del paese, la piccola borghesia in crisi economica, che non ha più ideologie, che non ha referenti, che protesta, che prova rancore, che è risentita, e che cerca di darsi comunque un tono». La camicia bianca, che pure Matteo Renzi indossa, è un richiamo ai colori dell’ufficio, in particolare quelli che in America denominavano i “colletti bianchi” e che, politicamente, «sono stati kennediani, poi reganiani, quindi hanno inneggiato a Clinton, e prima ancora a Bush. Sono oggi la classe media in crisi di reddito e d’immagine, altro punto di forza del Movimento 5 stelle. L’abito fa il monaco, si diceva, no?».
Negli Stati Uniti, Nixon perse il confronto tv contro Kennedy – il primo della storia – per il pallore del suo viso senza trucco e il nervosismo che traspariva dal suo sudore. Era il 1960 e, da allora, la televisione e il linguaggio del corpo sarebbero diventati sempre più decisivi. Nella politica statunitense, sopratutto. Ma anche in Italia, dove anni più tardi un creatore della tv commerciale avrebbe impresso una svolta: «Berlusconi è unico – dice Belpoliti –. Neppure Renzi è arrivato al suo livello, anzi, sembra che abbia fallito nella costruzione dell’immagine del proprio brand». Oggi, con il tramonto definitivo del sistema bipolare, «tutto è in via di ripensamento, anche la gestione del corpo». Dopo la rapida ascesa alla guida del Pd, l’immagine di Matteo Renzi si è indebolita e il segretario del partito democratico è alla ricerca di una nuova forma di sé: «Il suo brand – spiega Belpoliti – appare in discesa, come certe marche che crollano, spesso per ragioni misteriose, poiché nella moda tutto va e poi ritorna. Renzi non ha più lo stile del rottamatore, vuole diventare rassicurante. È una via di mezzo: non più giovane, non ancora adulto».
Il problema di Luigi Di Maio, invece, è di altra natura. Egli «appartiene alla generazione che ha sdoganato la pornografia nel web» e non fa più politica con gli spot: la fa con le clip, l’abc di internet. Ma cosa comunica? Nel paese del “tengo famiglia”, Di Maio si fa fotografare sempre solo (a eccezione di una volta in cui apparve con la fidanzata, da pochi mesi diventata ex). Al massimo, è ritratto in rapporto con una folla. Oppure, insieme a pochi compagni di partito in libera e scanzonata uscita. La sua esistenza privata non viene mai mostrata, come se, al di là della dimensione pubblica, egli non avesse una vita. Del resto, «non sembra avere la caratura per trasformare il privato in politico», dice Belpoliti.
Il suo limite più grande è che né con le parole né con il corpo «riesce a essere credibile». La sua figura può essere associata a quella di un «Alberto Sordi piccolo piccolo», spiega Belpoliti. Ha la caratura dei personaggi del comico romano, ma non la forza della maschera che s’imprime e rimane. «In un’epoca in cui tutto è fondato sulle facce, ogni cosa finisce anche rapidamente. Se non hanno un copione da recitare, i volti troppo visti si consumano». Quello di Luigi Di Maio potrebbe essere uno di questi, una «meteora» che non è riuscita a dare a se stesso un corpo politico ed è lontano dal trasformarsi in un’icona pubblica. «Certo – conclude Belpoliti –, è solo un impressione. “Mai fidarsi della prima impressione”, diceva Oscar Wilde. “Di solito, è quella giusta”».