I capelli che sembrano paglia, lo sguardo da scapestrato del college, il fisico ondeggiante e la postura un po’ goffa non devono ingannare. Boris Johnson è tutto fuorché uno sprovveduto. Nella sua carriera politica è stato tutto e il contrario di tutto, capace di sostenere una tesi e poi il suo opposto con la stessa identica foga e abilità dialettica. Merito, dicono, degli studi classici a Oxford. O forse, dice lui, merito di quel mostro del Partito Conservatore che, come dice lui rende i suoi militanti avvezzi «allo stile della Papua Nuova Guinea, con orge di cannibalismo e uccisioni di capi».
In effetti anche una che sembrava eterna come Margaret Thatcher cadde per colpa di una faida interna. È successo anche a Boris, l’uomo che le battaglie le ha vinte tutte ma che alla fine ha perso la guerra. Dopo le dimissioni di una serie di ministri del suo governo, Johnson ha annunciato che in autunno mollerà la premiership del paese e la leadership del partito. La pietra dello scandalo è il Party Gate, le feste fatte mentre mezzo mondo era chiuso per Covid, poi ci si è messo anche il caso Pincher, ma la verità in politica è sempre più sfumata: Boris ha fatto il suo tempo e i primi ad accorgersene sono stati i suoi compagni di partito. Lui, va detto, un po’ ci ha provato a resistere e ancora adesso, che proprio sembra finita, c’è chi vagheggia colpi di reni e ritorni di fiamma, un po’ per paura e un po’ perché Johnson già in diverse occasioni ha dimostrato di essere un drago delle situazioni disperate, un personaggio dotato della tempra del «last man standing» quando nessuno ci scommetterebbe sopra manco mezza sterlina. Eppure, questa volta, il viale del tramonto sembra l’unica strada percorribile, le speranze di farcela sono ridotte a meno di un lumicino. Del resto, se lui è un guerriero, il suo paese in passato non si è fatto problemi a mettere un re con la testa sul patibolo, quindi…
Boris, classe 1964, diventa Johnson già negli anni ’80, quando grazie ad alcune amicizie di famiglia, viene assunto al Times di Londra. L’avventura dura poco, però: licenziato per essersi inventato di sana pianta una citazione di Edoardo II in un articolo su una scoperta archeologica. Certe cose nel Regno Unito non passano inosservate, si sa. Boris, comunque, non resta tanto senza lavoro e in breve trova spazio al Daily Telegraph, il tabloid dei conservatori, un foglio con molta meno decenza deontologica del Times e dunque adattissimo a uno che usa il giornalismo solo come trampolino di lancio per la sua carriera politica. Corrispondente a Bruxelles, molto letto e stimato dalla Thatcher, Johnson è vero inventore degli «euromiti», le notizie palesemente false o estremamente gonfiate sulle presunte assurdità approvate dall’Unione Europea. E così, attraverso i suoi sagaci report, i lettori del Telegraph hanno via via appreso che l’Ue volesse ridurre le dimensioni dei preservativi perché gli italiani avrebbero il pene piccolo o che ci fosse stata una grande discussione sulla curvature delle banane e sulla potenza degli aspirapolvere. E ancora: le inchieste di Boris hanno svelato che le banconote in euro rendono impotenti e che la commissione europea ha assunto degli annusatori di letame per assicurarsi che l’odore fosse lo stesso in tutto il continente.
Dopo un passaggio in televisione, all’inizio del terzo millennio Johnson si presenta al parlamento e viene eletto nel collegio di Henley. Nel 2008 si candida a sindaco di Londra contro l’uscente Ken Livingston e lo sconfigge. Poi lo sconfigge un’altra volta nel 2012. Piace, Boris il sindaco. La città, dicono, migliora tantissimo e le olimpiadi del 2012 sono un grande successo. Qualcuno comincia a pensare che il futuro del Partito Conservatore ha i capelli biondi e spettinati. Però, ecco, questo Boris è proprio un mattacchione, esagera sempre, dice un sacco di sciocchezze e non sembra avere la statura per diventare primo ministro. Tutto cambia nel 2016, quando passa il referendum sulla Brexit e l’unico conservatore di una certa importanza che ha sempre sostenuto le ragioni del «leave» è lui, Boris Johnson. Il premier David Cameron si inabissa, Theresa May regge per un po’ al governo ma incappa in un disastro elettorale e deve farsi da parte anche lei. Che si fa? Tutto chiaro: venga il regno di Boris.
Nel 2019, alle elezioni, Johnson stravince e conquista la maggioranza assoluta a Westminster, molto aiutato dai Liberaldemocratici che affossano il Partito Laburista di Corbyn negandogli la desistenza in svariati collegi in bilico. Le trattative per la Brexit, però, sono complicate e l’azione di governo dei conservatori appare poco incisiva, i sudditi di sua maestà non sono affatto entusiasti ma il Partito Laburista non appare in grado di risolvere i suoi problemi interni, e allora Boris ha vita facile a portare avanti la baracca senza scossoni. Almeno fino ai primi mesi del 2020, quando il mondo intero viene travolto dal Covid.
Dire che all’inizio Johnson fosse scettico è poco. Il Regno Unito non va in lockdown, tutto resta aperto e l’obiettivo dichiarato è quello di arrivare all’immunità di gregge. Il 27 marzo, dopo aver tanto scherzato, Johnson si ammala, finisce in terapia intensiva e verrà fuori dall’ospedale solo a metà aprile. Da quel giorno, anche oltre la Manica il governo ha deciso di prendere sul serio la pandemia e di adottare tutte le contromisure del caso.
I fatti recenti sono noti: la posizione di Johnson sull’invasione russa dell’Ucraina sono durissime. Dipendesse da lui, Mosca sarebbe solo da bombardare. Una posizione durissima, assunta sin dal primo momento, a conferma anche del patto d’acciaio tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti per tutto quello che riguarda la politica estera: un legame che prescinde da governi, caratteri, persone e circostanze. C’è sempre e, in questo, BoJo è stato un premier normale, o quantomeno in linea con tutti i suoi predecessori degli ultimi cento anni.
La politica estera, però, non ha salvato lo spregiudicato Boris: il Partito Conservatore è abituato a divorare i propri figli. E non fa certo eccezione per una guerra.