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Il M5S ha chiuso definitivamente i conti con il proprio passato

Il nuovo statuto certifica l’egemonia di Giuseppe Conte nel M5S e sancisce lo scioglimento dei meetup e la fine della retorica anti-casta: il partito di Grillo è ormai completamente normalizzato

Una manifestazione del M5S. Foto Andrea Ronchini/Alamy/IPA

Dopo mesi di schermaglie, tatticismi, consultazioni di sedicenti “saggi”, paventati tradimenti e voltafaccia degni delle migliori telenovele argentine, abbiamo un verdetto definitivo: alla fine, nella caotica e logorante “guerra di posizione” per la conquista dell’egemonia all’interno del Movimento 5 Stelle, a spuntarla è stato Giuseppe Conte.

I 25 articoli che compongono il nuovo statuto – e che gli iscritti saranno chiamati a votare il 2 e il 3 agosto su una nuova piattaforma che sostituirà Rousseau e che, secondo le ultime indiscrezioni, dovrebbe essere Skyvote – hanno infatti ridisegnato per l’ennesima volta gli equilibri di forze del partito, confermando il ruolo guida assunto dall’ex presidente del Consiglio e ridimensionando l’apporto di una figura ingombrante come quella di Beppe Grillo, ormai ridotto al rango di semplice fondatore e occasionale megafono di propaganda. Grillo, infatti, occuperà la carica di “garante”, definito come il “custode” dei “valori fondamentali dell’azione politica” del M5s, che tuttavia manterrà una qualche discrezionalità in termini di democrazia interna, dato che eserciterà “il potere di interpretazione autentica, non sindacabile, delle norme” dello statuto, ponendosi nella condizione di portare avanti le tradizionali “purghe” con cui, negli scorsi anni, ha accompagnato alla porta diversi iscritti non perfettamente allineati all’indirizzo del Movimento. 

Tuttavia, è evidente che a muovere i fili dell’azione politica sarà Giuseppe Conte – che Grillo ha già proposto come presidente e la cui nomina, arrivati a questo punto, è solo una formalità. Lo statuto indica nella figura del presidente “l’unico titolare e responsabile della determinazione e dell’attuazione dell’indirizzo politico”. È lui che “dirige e coordina i rapporti con altre forze politiche o movimenti politici”, a lui spetta la responsabilità “dell’utilizzo del simbolo del Movimento 5 Stelle, anche per tutte le attività collegate alle tornate elettorali”. La sua elezione avviene “mediante consultazione in Rete”, resta in carica per 4 anni ed è eleggibile per non più di due mandati consecutivi. La carta prevede anche un meccanismo di sfiducia, ma di difficile realizzazione. Conte, infatti, potrà essere rimosso dall’incarico solo “Con delibera assunta all’unanimità dai componenti del Comitato di Garanzia e/o dal Garante, ratificata da una consultazione in rete degli iscritti”.

Oltre a rimodellare l’organigramma interno, nuovo codice organizzativo pentastellato segna un punto di cesura anche dal punto di vista “ideologico”, chiudendo definitivamente alcuni ponti con il passato, certificando il divorzio con l’Associazione Rousseau e decretando la fine di alcuni tormentoni che hanno caratterizzato il lessico e la cultura organizzativa del M5S sin dal primo “Vaffa-Day” – come i meetup, la retorica giustizialista, lo slogan “Uno vale uno” e il linguaggio violento.

Sembra passato un secolo da quella famosa serata del 4 ottobre del 2009, quando circa duemila persone ascoltavano infatuate un Beppe Grillo inferocito che, sul palco del Teatro Smeraldo di Milano, parlava con passione viscerale di democrazia diretta, consultazioni online e tessere dotate di chip con cui organizzare voti a distanza, illustrando linee guida di un grande progetto che, nell’arco di cinque anni, avrebbe dovuto costituire l’anticamera di una trasformazione radicale della politica italiana, talmente profonda da cambiarne per sempre tutti i tic e i malcostumi e, finalmente, riuscire nel compito di “mandare tutti a casa”. A ben guardare, infatti, il nuovo statuto di rivoluzionario ha davvero poco: assomiglia a una specie di codice di condotta dal retrogusto di Prima Repubblica, segnando un passo in avanti deciso in direzione della trasformazione del Movimento in senso istituzionale e garantista tanto agognata da Conte.

Il primo passo indietro è un cedimento evidente sul fronte della democrazia diretta: lo statuto sancisce, infatti, l’abolizione dei meetup, le piazze virtuali con cui il Movimento 5 Stelle ha iniziato a fare rete, disponendo che “sono disciolti, a far tempo dall’approvazione del presente Statuto, i gruppi locali e le formazioni territoriali auto-costituiti nel tempo o comunque di fatto già operanti”.

Un’altra novità introdotta dal documento, insolita per un Movimento che si è sempre descritto come estraneo alle logiche dei partiti tradizionali, è quella relativa alla creazione di una “scuola di formazione”, che richiama alla mente le vecchie scuole di partito con cui DC e PCI si occupavano della formazione dei loro quadri dirigenziali. Dovrebbe trattarsi di una specie di think thank interno che “si prefigge la formazione continua e l’aggiornamento permanente specialistico di coloro che si impegnano e che intendono impegnarsi in politica, con particolare attenzione ai giovani”. Da un punto di vista pratico si parla di “conferenze, seminari, incontri formativi, corsi di formazione, con esperti delle varie discipline ed esponenti del mondo della cultura, della scienza, della società” e dell’istituzione di “gruppi di lavoro” sulle “attività e sui settori più rilevanti che riguardano la vita economica, politica, culturale, sociale, di rilievo interno ed internazionale”.

Altro obiettivo è l’aggiornamento degli eletti e “di tutti coloro che rivestono incarichi pubblici”, anche attraverso la “condivisione delle migliori pratiche in sede amministrativa” – Insomma: mandato zero e alternanza in Parlamento sono, ormai, delle fotografie sbiadite. 

Tuttavia, nelle ultime ore a far discutere è stato soprattutto il cosiddetto “Addio al vaffanculo”, sancito dal “punto 0” della “Carta dei valori”, un allegato dello Statuto che indica una serie di norme di comportamento che tutti i rappresentanti del partito saranno chiamati a rispettare da qui in avanti. La disposizione si intitola “cura della parole”, e indica esplicitamente che “le espressioni verbali aggressive devono essere considerate al pari di comportamenti violenti”, precisando che “la facilità di comunicare consentita dalle tecnologie digitali e alcune dinamiche innescate dal sistema dell’informazione non devono indurre a dichiarazioni irriflesse o alla superficialità di pensiero. Il dialogo profondo, il confronto rispettoso delle opinioni altrui contribuiscono ad arricchire la propria esperienza personale e l’esperienza culturale delle comunità di rispettiva appartenenza”.

In parole povere, i delegati del Movimento non potranno pronunciare parolacce nelle dichiarazioni pubbliche; ovviamente si tratta di una previsione che, per un partito pienamente integrato nell’arco istituzionale, rientrerebbe nell’ordinaria amministrazione, ma che nel caso del M5S suona quasi grottesca e, anzi, rappresenta a tutti gli effetti un’abiura delle proprie origini, dato che il mito fondativo del M5s nacque proprio dai celebri “Vaffanculo-Day” indetti da Beppe Grillo in varie città italiane nel 2007.

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