Le liste con nomi e simboli per candidarsi alle Europee dell’8 e 9 giugno sono ufficialmente chiuse, e tra giravolte, cambi di casacca, impresentabili che comunque (tiè!) si presentano e partiti-meme, è tempo di primi bilanci. Nel segreto della cabina elettorale, là dove pare che Dio ci veda e Stalin no, chi ci troveremo davanti?
In linea di massima, una politica sempre più personalizzata e incentrata sui leader, che ormai in termini elettorali sembrano ampiamente valere più dei simboli che rappresentano. Non è una novità, è dai tempi della discesa in campo di Berlusconi, trent’anni fa che il culto della persona ha sostituito quello per le idee, ma a una situazione come questa, forse, non ci si era mai arrivati. Per dire: Giorgia Meloni per Fratelli d’Italia, Carlo Calenda per Azione e Cateno De Luca per Sud chiama Nord hanno tutti marchiato il simbolo del partito direttamente con il proprio nome; un segno di forza per loro, e di debolezza per chi gli sta intorno. Più discreta la Lega, che sotto al guerriero di Legnano ha appuntato il solito “Salvini premier”, anche se non è chiaro cosa ambisca a diventare premier a questo giro. Si spera porti fortuna. Forza Italia, che in barba a chi la dava per spacciata nell’ultimo anno con Tajani ha risalito la china dei consensi, forse per omaggiarlo o forse, meglio, per sfruttare la botta di nostalgia, sul logo ha scritto addirittura “Berlusconi”: non esclude il ritorno. Elly Schlein, per il Partito Democratico, si è sottratta a questo gioco forse perché sommersa da critiche interne, ma comunque si è candidata.
La candidatura dei politici di punta ‒ quelli, cioè, con incarichi istituzionali più o meno importanti, dal Senato fino a ruoli nel governo stesso ‒ è stata infatti uno dei temi più dibattuti nelle ultime settimane. Gli unici a non essersi presentati sono Matteo Salvini, Giuseppe Conte per il Movimento 5 Stelle e Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli per l’Alleanza Verdi e Sinistra Italiana. La versione ufficiale è che la loro sarebbe una candidatura farlocca, uno specchio per le allodole buono solo a catalizzare, con un nome più altisonante, i voti dei poco avvezzi: se venissero eletti dovrebbero scegliere tra gli impegni in Italia e quelli a Strasburgo, e tutti resterebbero qui; tanto vale non presentarsi, no? La versione maliziosa dice invece che, semplicemente, ora come ora non hanno voglia di sottoporsi al vaglio degli elettori, di prendere schiaffi.
Volendo credere alla prima, è probabile che saranno candidature-fantasma quella di Meloni (cinque circoscrizioni su cinque, sempre che non voglia rinunciare al ruolo di premier per quello più umile di eurodeputata), Calenda e Tajani (quattro su cinque) e Schlein (due su cinque, nelle quali sfiderà Meloni). A proposito di Meloni: alla fine ce l’ha fatta a essere chiamata solo “Giorgia” (la dicitura ufficiale sarà “Giorgia Meloni detta Giorgia”), venendo in aiuto alle esigenze di propaganda, con i sondaggisti che dicono che così può muovere fino a due milioni di voti; tuttavia, come spiega Pagella Politica, è pure l’unica Presidente del Consiglio in corsa in Europa, segno che la strategia della candidatura simbolica piace solo qui. Renzi con Italia Viva è in quattro circoscrizioni su cinque, sempre da ultimo, ma è il solo ad aver promesso di lasciare il seggio in Senato se venisse eletto ‒ chissà che per qualcuno non valga come un incentivo.
Cercando nel cestone dei pesci piccoli, qua e là spuntano nomi annunciati e altri in realtà a sorpresa. Si sapeva di Ilaria Salis e di Leoluca Orlando (entrambi con Verdi e Sinistra Italiana), nonché di Vannacci, che con la Lega è pressoché ovunque. Il PD ha messo sul piatto un fritto misto di nomi con idee molto diverse tra loro: dove non c’è Schlein, che si è detta orgogliosa di questo pluralismo che in realtà rischia solo di confondere, i capolista rispondono ai nomi Stefano Bonaccini (Nord Est), Cecilia Strada (Nord Ovest) e Lucia Annunziata (Sud), mentre tra le liste dem c’è anche il giornalista Marco Tarquinio, che sull’Ucraina ha posizioni molto diverse da gran parte dei Dem. I 5 Stelle, poi, hanno dalla loro l’ex presidente dell’Inps Pasquale Tridico e l’ex calciatrice Carolina Morace, mentre Repubblica in Fratelli d’Italia ha trovato un nipote di Crosetto, Ministro della Difesa, e addirittura una pronipote di Giovanni Giolitti. Vittorio Sgarbi, dopo le varie tarantelle con il governo, alla fine ce l’ha fatta: è candidato con Meloni al Sud, anche se parte in salita, 17esimo su 18. Alessandro Cecchi Paone è con Emma Bonino in Gli Stati Uniti d’Europa, mentre la lista di Michele Santoro e Vauro, che si chiama Pace Terra Dignità e propone un’alternativa «pacifista» alla guerra in Ucraina, da alcuni tacciata di essere filo-Putin, potrebbe contare su Paolo Rossi e Nicolai Lilin.
Va usato il condizionale perché per le liste come questa, che non hanno già almeno un esponente in Parlamento o a Strasburgo, servono 15mila firme per ogni circoscrizione prima di potersi presentare al voto. Non è banale. Oggi si saprà se quelle consegnate da Santoro per Sud e Isole sono valide, ma nel dubbio Pensioni & Lavoro Risveglio europeo e Democrazia Sovrana e popolare ‒ di un Marco Rizzo che fino all’ultimo ha provato l’asse rossobruna ‒ si sono presentate lo stesso pur non avendo le sottoscrizioni necessarie, come protesta, e annunciano ricorsi. Sempre per insufficienza di firme, restano fuori I Pirati, Partito Animalista-Italexit, Forza Nuova e soprattutto Alternativa Popolare, l’ultimo trovata del sindaco di Terni di Stefano Bandecchi, che, con i modi ampiamente contestabili che lo caratterizzano, voleva un seggio in Europa al grido di «siamo i nuovi democristiani». Rimane anche lui nel limbo di una norma già parecchio contestata, che imponendo la soglia delle 15mila sottoscrizioni, da alcuni ritenuta troppo elevata, ha oggettivamente ripulito le elezioni dai partiti-meme, ma non è detto che la democrazia passi anche da loro.