«Tra i 14 Paesi aderenti al Franco Africano, la prima per sbarchi in Italia nel 2018 è la Costa d’Avorio, ottava. Su 23mila sbarchi circa, provengono da lì poco più di mille persone. In tutto sono appena 2mila i migranti arrivati dall’area interessata dalla moneta». Se almeno i dati contassero ancora qualcosa, le parole di Riccardo Brizzi, professore di storia contemporanea all’università di Bologna, varrebbero come rivelatore della strumentalità della polemica che ha calamitato la politica italiana negli ultimi tre giorni, e che ha causato una crisi diplomatica con i nostri vicini.
In principio fu Di Maio ad accusare le politiche “neocolonialiste” francesi, e in particolare il franco CFA, di essere una delle principali cause dell’immigrazione in Italia. Poi, a distanza di poche ore, l’attacco è diventato concentrico, con la Meloni e Di Battista – che, parlando d’Africa, aveva già conquistato la palma di bufalaro dell’anno per il New York Times – che contemporaneamente hanno sventolato una banconota in faccia al pubblico televisivo, il secondo dal popolarissimo salotto di Fazio. A chiosa anche l’immancabile placet di Salvini.
Un argomento di cui non parlava nessuno o quasi in Italia, e che all’improvviso è diventato il tema centrale per la nostra classe dirigente. Non abbiamo le prove, per usare parole di Dibba più che di Pasolini, ma a pensare male si potrebbe quasi ipotizzare una regia esterna e ben coordinata, la risposta ai continui input di ricerca di un nemico esterno.
E così ora tocca informarsi su cosa davvero sia questo franco CFA. È una valuta utilizzata in un insieme di territori – quasi tutte ex colonie francesi -, che un tempo era ancorata al franco francese e oggi è legata all’euro, attraverso un sistema di cambi fissi garantito dal tesoro in Francia. Il sistema fu voluto da De Gaulle nell’immediato dopoguerra, con l’obiettivo di garantire stabilita monetaria a Paesi in via di sviluppo. Ogni critica è chiaramente legittima, ma pare una forzatura definirla moneta coloniale. La questione è stata sviscerata bene qua e qua.
Che sia una forma di sfruttamento è, però, la lettura che se ne fa da tempo su una serie di canali social e portali di “controinformazione” – servirebbero più di due virgolette in questo caso – sovranista. È questa, ad esempio, la tesi di Ilaria Bifarini, uno dei guru digitali del nuovo pensiero dominante. Ora membri molto influenti dell’esecutivo – seguendo una dinamica già vista più volte in questi mesi – l’hanno fatta propria e rimasticata a favore di milioni di elettori.
«Queste parole seguono l’endorsement di Di Maio ai gilet gialli, l’obiettivo è colpire il presidente Macron in una fase di debolezza», dice Brizzi, che nei suoi studi si è occupato soprattutto di Storia della Francia. «Un governo in campagna elettorale permanente sta preparando le Europee e punta tutto sullo scontro sovranisti vs. europeisti: l’Italia mira a essere la forza leader, tra i Paesi fondatori, che si contrappone all’asse franco-tedesco».
Peccato che l’idea di un’internazionale sciovinista non pare avere troppe chance di funzionare, perché alla fine la tutela dei personalismi vince sempre. «E infatti la Le Pen, alleata di Salvini in Europa, sul franco CFA non ha mai avuto nulla da eccepire, anzi è da sempre estremamente intransigente quando si prova a mettere in discussione la storia del colonialismo francese. Se l’è presa con Hollande quando per primo ha chiesto scusa, ha fatto lo stesso con l’attuale presidente, che in campagna elettorale ha definito “crimini contro l’umanità” le torture commesse dai francesi nel mondo».
Il colonialismo è un nervo particolarmente scoperto in Francia, anche per via di una decolonizzazione che fu sanguinosa fino all’ultimo giorno, dall’Indocina all’Algeria. Mentre la società francese si divideva su torture e dominazione, la politica e l’esercito si muovevano compatte. “L’Algeria è Francia”, disse in parlamento nel 1954 Mitterand – stiamo parlando di un uomo di “sinistra” – per giustificare la guerra.
«Finita quella parentesi, inizia la lunga scia del neocolonialismo», dice Brizzi. «Che la questione sia un nodo irrisolto, che lo sfruttamento si fosse spostato dalle terre dei padri alle metropoli, è testimoniato dalle rivolte della banlieue del 2005 e dalla tragica stagione recente del terrorismo, che smentiscono la retorica francese del Paese “black blanc beur“, coniato durante i Mondiali casalinghi del 1998. E poi c’è la questione economica, il controllo perpetuato attraverso compagnie petrolifere e multinazionali. Ma l’Italia con la Libia non ha fatto nulla di diverso rispetto alla Francia, vale per tutti i rapporti di dominazione».
Il punto, ritornando all’oggi, è che ogni nazione tende a fornire un’immagine autoassolutoria di se stessa e della propria Storia. «Lo faceva la Francia, secondo cui il colonialismo inglese era il più feroce, mentre loro, il Paese dei Lumi, avrebbero avuto un altro tipo di rispetto per i diritti umani. Solo che fu la Francia a introdurre il code noir, la norma che imponeva la schiavitù nelle colonie».
Lo facciamo da sempre anche noi, che coltiviamo il mito dell’italiano buono e compagnone. «Come racconta Focardi nel suo libro Il cattivo tedesco e il bravo italiano a proposito della Seconda Guerra Mondiale, oppure i volumi di Labanca o Cresti sui crimini commessi in Libia. L’impiego terroristico dell’aviazione, le armi chimiche, la strage di Graziani dopo l’attentato del ’37 ad Addis Abeba, le leggi razziali introdotte in Etiopia prima che da noi. La favola del nostro colonialismo dal volto buono non regge alla prova della Storia. Motivo per cui, anche oggi, ciascuno farebbe bene a occuparsi dei propri scheletri nell’armadio».